venerdì 9 ottobre 2009

La Corte Costituzionale ha allontanato ancora di più cittadini e istituzioni

La sentenza della Corte Costituzionale sul Lodo Alfano è una sentenza storica: non tanto per i contenuti giuridici, quanto per le conseguenze nella società civile prima ancora che in quella politica. È una sentenza destinata ad accrescere il divario fra i cittadini e le istituzioni, fra il paese reale e il paese legale, tra l’uomo della strada e il cortigiano di palazzo. La maggiore conseguenza di questa strabiliante sentenza sarà proprio questa: l’aumento della sfiducia degli italiani nei confronti della magistratura, in primo luogo, e di gran parte delle istituzioni, in secondo luogo.
La fiducia nella magistratura, secondo i dati Eurispes, ha subito negli ultimi anni un forte calo di consensi, tanto che oggi oltre la metà degli italiani (il 53,7%) dichiara di non fidarsi affatto della magistratura. Nel 2004 (l’anno, lo ricordiamo per inciso, del giudizio della Corte Costituzionale sul Lodo Schifani) il 52,4% degli italiani, una cifra superiore quindi alla maggioranza assoluta, dichiarava di avere fiducia nella magistratura, mentre oggi sono il 44, 4 % degli italiani è dello stesso avviso.
Con la sentenza di ieri la Corte Costituzionale ha smentito se stessa. Nel 2004, infatti, essa dichiarò esplicitamente che la tutela delle più alte cariche dello Stato nello svolgimento delle loro funzioni era da considerarsi un «interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto». Con tale espressione, a ben vedere, si sottintendeva il richiamo ai principi della separazione dei poteri e della stabilità ed efficienza degli organi costituzionali lasciando intendere che norme come quelle di tutela di fronte a conflitti fra poteri diversi (ché di questo, nella sostanza, si tratta nel caso di azioni giudiziarie contro le alte cariche dello Stato) fossero norme attuative e quindi adottabili con legge ordinaria. La Corte Costituzionale, quindi, non contestò l’uso dello strumento della legge ordinaria rispetto alla legge costituzionale, che pure era stato un problema sollevato dall’ordinanza di rinvio del Tribunale di Milano, ma si limitò a fornire indicazioni precise per rimuovere, con l’intervento legislativo, taluni individuati limiti di illegittimità costituzionale: indicazioni tutte accolte nella stesura del Lodo Alfano.
Adesso la Corte Costituzionale è tornata sui suoi passi, rigettando il testo della legge riscritto secondo le sue stesse indicazioni e, proprio per ciò, avallato dal Capo dello Stato. Evidentemente qualche cosa è cambiato. È cambiata parzialmente la composizione della Corte e quindi sono cambiati gli equilibri politici interni di questo organo dello Stato chiamato istituzionalmente, fra l’altro, a sindacare la conformità delle leggi ordinarie alla Costituzione e a risolvere i conflitti fra i poteri dello Stato. Ma è mai possibile che un mutamento nella composizione di questo organo possa produrre effetti di questo tipo? Che possa, in altre parole, portare alla sconfessione di se stesso?
Per il cittadino comune – ma non solo per lui – ciò è inammissibile. La Corte Costituzionale, per le stesse funzioni che è chiamata a svolgere, non è un tribunale come gli altri. Le sue decisioni costituiscono precedenti ai quali essa stessa deve uniformarsi, pena la perdita di ogni credibilità. La Corte Costituzionale dovrebbe essere il simbolo della certezza del diritto. Se essa si smentisce perde questa caratteristica. Ecco perché la decisione di ieri è grave. È, in un certo senso, il requiem per lo Stato di diritto. Ed ecco perché, come si diceva all’inizio, l’effetto più dirompente e grave della decisione non sarà tanto (o solo) di natura giuridica o politica quanto (e soprattutto) di natura sociale: l’aumento del discredito della magistratura e la crescita esponenziale del distacco dei cittadini da gran parte delle istituzioni. E, per quanto riguarda la Corte Costituzionale, si diffonderà, ahimé, sempre più, l’idea che essa non garantisca affatto lo Stato di diritto, ma sia soltanto un sinedrio di privilegiati promossi a quel posto per motivi prevalentemente politici.

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