lunedì 10 agosto 2009

migrazioni in corso



L’integrazione degli immigrati è fondamentale, ha detto il capo dello Stato ricordando le vittime della strage di Marcinelle in Belgio. E chi non è d’accordo? L’integrazione è fondamentale, ma l’integrazione non è una condizione cui si arriva assumendo dosi massicce di aspirina o di cortisone. L’integrazione è un traguardo della politica. Il successo o l’insuccesso dipendono esclusivamente dalla politica.
Solo di recente l’Italia e gli italiani hanno preso le misure al fenomeno. Alla fine degli anni Ottanta l’allora ministro del Lavoro Donat-Cattin invitava gli stranieri a venire a flotte in Italia per sopperire alla mancanza di manodopera. Un invito appaiato con una certa ideologia di sinistra per cui ai drammi del mondo non vi era altra soluzione che l’accoglienza senza eccezioni. Per di più in nome di questa accoglienza tutto era permesso, anche chiudere un occhio - anzi due - di fronte ai delinquenti.
Nel giro di vent’anni l’Italia ha cambiato faccia. La sommatoria dei nuovi arrivati però non produce un paese multietnico compiuto, né produce un multiculturalismo equilibrato. La sommatoria di nuovi cittadini produce soltanto questioni nuove, talvolta anche serissimi problemi. Non voglio ripetere fatti che voi lettori conoscete a memoria (permettetemi solo di citare il libro di Francesco Borgonovo cui ho partecipato con qualche commento, dal titolo provocatorio L’Invasione), situazioni di matrimoni combinati con spose fanciulle, casi di poligamie riconosciute de facto, sfruttamento di minori a fini di borseggi o furti, eccetera eccetera. Si tratta di cose che ci siamo detti un milione di volte.
Parliamo di altro, per esempio del tanto lavoro nero, alimentato da padroni senza scrupoli e gestito dalla criminalità, a danno di stranieri cui non resta che subire ricatti e soprusi. Si lamenta l’assenza di controlli quando accadono incidenti sul lavoro. Ebbene, quei controlli dovrebbero essere insistenti anche per verificare la regolarità del lavoratore. Invece siffatti controlli non si fanno e non certo perché manchino i controllori. La clandestinità doveva e poteva essere arginata anche così.
Oggi si parla tanto del reato di clandestinità come se fosse una bizzarria di questo governo o una mania persecutoria del ministro (...)
(...) Maroni, quando al contrario è una fattispecie esistente in altre legislazioni estere. Dello stato di irregolarità ha parlato anche il presidente della Camera Gianfranco Fini nella sua visita alla miniera di Marcinelle. «Il lavoratore merita rispetto anche se non ha il papier, cioè il documento», ha dichiarato. Intendiamoci, il rispetto è una attitudine delle buone maniere, attiene all’educazione civica.
Il rispetto lo si deve a tutti. Discorso diverso è la messa a fuoco sotto il profilo della regolarità. Non nascondiamoci dietro la retorica: la clandestinità non aiuta lo straniero. Né favorisce l’integrazione. L’integrazione si compie alla luce del sole, la clandestinità invece è agire nel chiaroscuro.
Vogliamo aumentare le quote d’ingresso? Vogliamo rivalutare le politiche di ingresso? La politica compia le proprie scelte strategiche, però poi basta con i percorsi a zigzag, altrimenti si favoriscono le peggiori soluzioni del fai-da-te.
«Nel ’56 la parola extracomunitari non esisteva ancora», ha proseguito Fini , «ma se ci fosse stata i lavoratori italiani che morirono in quella strage sarebbero stati definiti extracomunitari e magari qualcuno l’avrebbe fatto con disprezzo». Rammento che in Belgio negli anni Cinquanta gli immigrati italiani erano chiamati mafiosi, e non credo volessero farci un bel complimento. Non esiste tempo e luogo nella Storia in cui l’immigrazione sia rimasta immune da un conflitto con gli autoctoni. Non esiste. Né potrebbe esistere. In tanti hanno provato a costruire la Città Ideale ma finora nessuno ha trovato un progetto che stia in piedi.
Ad ogni migrazione, interna o esterna, corrisponde un cambiamento significativo, sempre conflittuale. I cittadini non fanno i conti con gli “extracomunitari” (per dirla con Fini) sulla base di trattati sociologici, ma perché il loro vivere quotidiano subisce cambiamenti significativi: nella scuola, negli ospedali, nei servizi sociali, nella disponibilità residenziale. Ogni comunità straniera porta una sua cultura, spesso anche diversa se non in contrasto con quella del posto.
Il cambiamento delle nostre città nel giro di vent’anni è sotto gli occhi di tutti. Basta vedere le vetrine dei negozi, basta leggere i nomi sui citofoni, basta guardare alla “suddivisione” dei quartieri. Basta vivere. Ebbene, questo cambiamento è il risultato di una stratificazione combinata, di una consuetudine mai governata (o governata male) dalla politica. Ecco perché alcune tensioni hanno prodotto veri e propri conflitti.
Come vedete, tengo a debita distanza i partiti e i loro slogan. Cerco di attenermi ai fatti. Per anni ci è stato detto che gli immigrati non accrescevano la criminalità in Italia; i dati rivelano ben altro. Questo governo sta predisponendo misure che vanno verso la giusta via.
Con insistenza ci avevano suggerito di guardare alla Francia come esempio di integrazione riuscita: addirittura indicavano la nazionale di calcio coi suoi tanti francesizzati. Dopo la vittoria dei mondiali e dell’europeo dei Blues, però il miracolo si sgonfiò con gli scontri nelle banlieues parigine. Quegli scontri (non isolati, perché tafferugli del genere covano frequentemente) evidenziarono il disagio della seconda generazione, una generazione senza identità. I saggi del sociologo Marzio Barbagli confermano la tendenza deviante delle seconde generazioni rispetto alle prime, come fallimento di una integrazione mal riuscita.
Ieri la Stampa di Torino ha raccontato l’esperimento di un asilo multietnico nel difficile quartiere di San Salvario. La storia è bella, l’ho letta tutta d’un fiato. Ma aggiungo che è assolutamente prematuro e frettoloso ritenere compiuto quell’esperimento. Ce lo auguriamo, ma i risultati si sapranno tra non meno di un decennio: solo allora capiremo se la semina in quell’asilo avrà prodotto il frutto dell’integrazione.
Costruire la città ideale - dicevo - è stata utopia di tanti. Possiamo consolarci pensando che almeno ci abbiamo provato. Sarebbe un errore: se la politica va a tentoni, la società sbanda. E i conti cadrebbero domani sui nostri figli.
Il rigore e la severità non vanno presi come un capriccio o una convenienza elettorale. Di contro, l’apertura agli stranieri va vissuta senza isterismi. L’importante è non dire: dell’immigrazione non si può fare a meno. È una cretinata galattica.
P.S. Buon riposo a quei poveretti che ieri e oggi si sono sciroppati code e disagi. Partire di lunedì è davvero così sconveniente?


Di Gianluigi Paragone



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