lunedì 8 novembre 2010

Dal Predellino che intende unire al Finianismo che intende dividere


Se un giorno – per dirla con Giorgia Meloni – il tempo sarà galantuomo, Fini Gianfranco, leader di Futuro e Libertà, verrà ricordato soprattutto per il suo «demerito»: quello di essere riuscito a dividere la destra italiana che Berlusconi, nel bene e nel male, intende(va) unire, magari in una sintesi con il centro. Non si potrà dire pertanto che Fini abbia voluto unire. Fini ha voluto separare. E nel farlo si è separato lui stesso dal suo popolo, o comunque da una sua parte consistente: la maggioranza. Perché tuttora non credo che avrà grande seguito a destra. Per ricordare ancora le parole di Alemanno: FLI aspira al centro, e questo in un certo senso dovrebbe preoccupare Pierferdy Casini, il quale a mio avviso forse farebbe meglio a tendere la mano al Cavaliere. Ma non una mano mortale, ma una mano sincera, capace di mettere il leader di FLI all’angolo.
Fini comunque è servito ottimamente allo scopo che la sinistra sognava di raggiungere da tempo: spezzare il centrodestra. Il primo atto si è avuto nel 2008, quando Casini decise di andare da solo e mollò Bossi, Fini e Berlusconi al loro allora fausto destino: vincere le elezioni. Il secondo atto si è avuto più o meno questa estate – benché le avvisaglie risalissero nel tempo – quando è stato lo stesso Fini, spinto dalla sinistra e dalla sua ambizione, a tradire il Cavaliere e a mettersi nuovamente in proprio, fondando una nuova ditta. La solfa poi la conosciamo: Fini che accusa il PDL di averlo cacciato. Una solfa che non regge perché fin da piccoli impariamo a nostre spese che la corda se tirata per troppo tempo e troppo forte alla fine si spezza. Fini l’ha spezzata diverse volte e alla fine si è autocacciato. Se c’è pertanto qualcuno al quale egli deve attribuire responsabilità in merito, quel qualcuno è proprio lui stesso.
Quando un giorno Fini verrà ricordato, verrà probabilmente ricordato come il «divisore» della capacità moltiplicativa operata dal Predellino che ha posto le basi per la nascita del PDL. E del resto, i consensi non si comprano agli angoli delle strade, ma si conquistano. E il PDL ne aveva conquistati parecchi. Poi però il dilapidatore ha rotto il giocattolo: ha rimesso tutto in discussione, anche i valori fondanti della destra, pur di scalzare dallo scranno più alto il leader. «Non ci gioco più», sembra di sentirgli urlare. «Voglio giocarci io, ora». E al no chiaro del leader, sono seguiti i dispetti. E poi il divorzio. E con il divorzio, anche i «figli» si sono separati: padri contro madri, sorelle contro fratelli, amici contro amiche, colleghi di partito contro colleghi di partito, ex-finiani contro i neo-finiani. Il tutto in un crescendo delirante e parossistico di astio e di livore che ha reso il centrodestra un vero e proprio campo di battaglia dove chi era amico, chi lottava fianco a fianco contro l’avversario comune – la sinistra – ora lotta contro il proprio «fratello» ideale.
Una desolazione. C’è chi ha costruito e c’è chi ha distrutto. E la colpa, a sentire poi le ragioni di Fini, è solo di Berlusconi. Non c’è, in altre parole, nei discorsi finiani alcuna ammissione di (co)responsabilità, se non quella del «senno di poi». L’unica ammissione fatta dal leader di Futuro e Libertà è infatti quella di aver sbagliato ad acconsentire di far confluire AN nel PDL. Quasi che AN fosse cosa sua e la base degli elettori che ha creduto nel progetto non contasse nulla. E allora mi domando: se questa è la verità, perché il PDL ha sbancato nel 2008?
La realtà mi pare piuttosto un’altra. Il successo del PDL ha spaventato Fini; gli ha fatto realizzare che per sedici anni lui non ha contato nulla nell’alleanza. Il rapporto che contava, che pesava, era quello tra Berlusconi e Bossi e tra questi e gli elettori; Fini e Casini sono sempre stati dei comprimari, dei «colonnelli» del leader dell’ex Forza Italia. Capi di fazioni minoritarie che ruotavano intorno all’uomo di Arcore e alla sua forza elettorale e nulla più. Ecco perché dopo Casini, anche Fini alla fine si è lasciato trascinare dalle sirene dell’ambizione e della sinistra: perché si è trovato in un vicolo cieco. O «morire» da secondo, oppure tornare a essere il primo, ma non il solito primo «berlusconiano» – prospettiva questa che l’avrebbe riportato al ruolo di sempre: quello di comprimario – ma il primo «post-berlusconiano». E per farlo, non poteva che inventarsi una nuova destra; una destra diversa (anche idealmente); una destra che non si sovrapponesse a quella del PDL. Una destra che doveva trovare alleanze là dove il berlusconismo non aveva fatto breccia e dove era malvisto e nemmeno tollerato: negli ambienti dei poteri forti, delle istituzioni privilegiate e della sinistra salottiera e buonista.
Il resto della storia lo conosciamo. Il «divisore» ha operato bene. Ha raggiunto lo scopo. Chi si è servito di lui oggi brinda con lo champagne. Quello che non era stati capaci di compiere le gioiose macchine da guerra occhettiane, dalemiane, veltroniane e prodiane, e nemmeno quelle leghiste, è riuscito a compierlo lui, Fini Gianfranco. Il politico che verrà ricordato per aver diviso ciò che altri avevano unito…

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