domenica 22 agosto 2010

In sei punti la sfida di Berlusconi: anche sicurezza e immigrazione


Sei i punti programmatici - federalismo, fisco, Mezzogiorno, giustizia, sicurezza e immigrazione - emersi dal vertice del Pdl di questo pomeriggio. "Su questi punti, che ripercorrono il programma di governo - ha spiegato il premier Silvio Berlusconi in una conferenza stampa al termine della riunione a Palazzo Grazioli - il Pdl intende chiedere un rinnovato impegno del Parlamento" e si aspetta un "cammino rapido, senza ripensamenti", nell'approvazione di quelle riforme che i cittadini chiedono. Il vertice ha quindi "dato mandato ai capigruppo alla Camera e al Senato di preparare nei dettagli la mozione da presentare alle Camere". Il premier ha aggiunto che dalla verifica si attende "una maggioranza non risicata". "Se non ricevessimo un rinnovato impegno di maggioranza", Berlusconi non vede "altra soluzione per il bene del Paese che rivolgersi ai cittadini, titolari della sovranità. Ogni tempo in più sarebbe tempo perso". E non solo la Lega, ha quindi assicurato il premier, "anche noi siamo pronti alle elezioni ove non riscontrassimo la maggioranza necessaria ad attuare questo programma", e tutti i sondaggi e i focus, riferisce, dimostrano che la coalizione "composta da noi, la Lega, e probabilmente altre forze politiche", andrebbe "oltre il 50 per cento". Riguardo le dinamiche interne alla maggioranza nei lavori parlamentari, il premier ha inoltre avvertito che "non accetteremo più sui punti di programma trattative come ci sono state in passato", per esempio sul ddl intercettazioni, fino a snaturarlo. Rispondendo alle domande dei giornalisti, Berlusconi ha negato suoi interventi o dei suoi "collaboratori" all'indirizzo dei parlamentari finiani ("non crediamo di dover svolgere una campagna acquisti nei confronti di chi rimane nel nostro partito") e riguardo la campagna del Giornale contro il presidente della Camera, ha assicurato che "da parte nostra non c'è mai stata volontà di incentivare la campagna contro Fini". Positiva la prima reazione dei "finiani", che tramite il capogruppo alla Camera Italo Bocchino fanno sapere: "Voteremo il programma", che non presenta elementi di "novità o sorpresa". Addirittura "lapalissiano", lo definisce l'esponente di Fli, che osserva come "per l'80 per cento dà ragione alle richieste di Gianfranco Fini". Bocchino ha comunque fatto notare che il processo breve non è compreso nel programma, quindi "lo valuteremo nel merito".

Duro invece il commento del segretario del Pd, Pierluigi Bersani: "Berlusconi racconta favole, ragiona da caudillo sui temi della democrazia e della Costituzione" e "vuole il suo processo breve". Secondo Bersani il documento del Pdl "certifica il fallimento di questi due anni di governo e non offre base alcuna per affrontare i problemi reali del paese, dei quali non si mostra la minima consapevolezza. Adesso la parola passa al Parlamento". E nel frattempo, annuncia, il Pd aprirà "l confronto tra tutte le forze di opposizione" e "la nostra mobilitazione nel Paese". Per il leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, "Berlusconi finalmente getta la maschera e dice in realtà che cosa vuole: una giustizia a suo uso e consumo, un fisco che assicura impunità agli evasori e un politica economica solo a favore della cricca piduista di cui fa parte". A questo punto, prosegue l'ex pm, "spetta alla coscienza di ciascun parlamentare assumersi le proprie responsabilità" e dalla verifica "si capirà chi lancia il sasso e nasconde la mano e chi, invece, ha il coraggio di andare fino in fondo nelle proprie azioni". Riferendosi evidentemente ai finiani osserva che "coloro che hanno ammesso di aver sbagliato finora per aver assecondato Berlusconi hanno l'occasione di non ripetere l'errore e mandare a casa il satrapo nostrano. Se non lo fanno, dovranno tacere per sempre".

Il documento del Pdl, letto integralmente dal presidente del Consiglio, inizia con una premessa volta a ribadire la centralità della sovranità popolare nell'indicazione della coalizione di governo: "Nelle elezioni dell'aprile del 2008, anche grazie a questa legge elettorale, abbiamo realizzato l'obiettivo che fin dal '94 ci eravamo prefissi". E' una "novità assoluta nella politica italiana", ha rivendicato, che gli elettori "possono liberamente scegliere il primo ministro, l'alleanza governo e soprattutto il programma". Una "novità di grande rilievo che non può essere cancellata", ha proseguito il premier, perché alla "radice della democrazia liberale c'è la sovranità del popolo" e "nessuna teoria giuridica può giungere a giustificare un governo di quanti sono usciti sconfitti dalle elezioni", né si può "indulgere dinanzi ai tentativi di una minoranza della magistratura di abbattere un governo legittimo attraverso sentenze" che rispondono a "teoremi politici".

FEDERALISMO - Il primo dei punti enunciati dal premier è il federalismo fiscale. L'intenzione del governo è quella di proseguire con i decreti attuativi che rappresentano una "rivoluzione nei trasferimenti" dallo Stato alle Regioni e agli enti locali. Con il federalismo fiscale, ha assicurato, i cittadini avranno "servizi pubblici uguali" e verrà "eliminata la differenza di costi tra Nord e Sud". I comuni saranno "coinvolti nell'accertamento dei redditi per combattere l'evasione" e "gli amministratori saranno costretti ad una maggiore trasparenza" nella gestione dei fonti. Gli enti locali "godranno di una maggiore autonomia fiscale", ma il federalismo, ha assicurato Berlusconi, "non comporterà maggiori costi e verrà attuato senza aggravio della pressione fiscale complessiva, destinata invece a scendere".

FISCO - L'obiettivo del governo per quanto riguarda il fisco è "ridurre e disboscare la giungla fiscale". Tenendo conto dell'esigenza di mantenere sotto controllo il bilancio pubblico, il governo intende inoltre "pervenire entro la legislatura, senza produrre ulteriore deficit, a nuove norme per una graduale riduzione della pressione fiscale complessiva". Per le famiglie, ha spiegato il premier, rimane "fondamentale" l'obiettivo del "quoziente famigliare", mentre per le imprese "la riduzione - già cominciata - del carico dell'Irap".

MEZZOGIORNO - Nel programma di governo anche un piano per il Sud, che "fa perno" sulla "Banca del Sud", sui fondi europei, però "concentrati su grandi iniziative strategiche", come il Ponte dello Stretto, e sulla fiscalità di vantaggio per le nuove imprese. Ma per il rilancio è "prioritario liberare il Sud dalla morsa della criminalità". Dal 2002 al 2009, ha poi riferito il premier, "su un valore di opere pari a 68 miliardi" per le quali il Cipe ha approvato il finanziamento sono stati "triplicati" gli interventi per il Mezzogiorno.

GIUSTIZIA - Un capitolo in cui il premier ha rivendicato innanzitutto i risultati dell'azione di governo, con l'introduzione della normativa antimafia, di quella contro lo stalking, e del nuovo processo civile. Ma il governo intende realizzare una "riforma complessiva della giustizia civile e penale, con l'obiettivo di rendere effettivo l'art. 111 della Costituzione sul giusto processo", garantendo quindi la "parità tra accusa e difesa" e la "certezza dei tempi" dei processi. "La lentezza dei processi - ha ricordato Berlusconi - è una piaga della giustizia italiana pagata da tutti i cittadini", per la quale siamo condannati dall'Europa. E' necessario quindi un processo "non breve, ma in tempi ragionevoli". Il premier ha annunciato inoltre leggi di modifica costituzionale sulla "responsabilità civile dei magistrati" e per riformare il Csm, introducendo "due strutture separate". Della riforma della giustizia faranno parte anche il Lodo Alfano costituzionale, lo scudo a tutela delle alte cariche dello Stato, e una legge ordinaria "per la ragionevole durata dei processi", "già approvata al Senato" e di cui Berlusconi auspica l'approvazione "in tempi celeri anche alla Camera". Verrà adottato anche un piano carceri e assicurato un aumento di risorse destinate alla giustizia "con le ingenti somme confiscate alla criminalità organizzata".

SICUREZZA E IMMIGRAZIONE - Anche su questi due temi nei mesi scorsi il presidente della Camera Gianfranco Fini non ha mancato di manifestare le proprie perplessità e i propri distinguo rispetto all'azione di governo. Nel suo documento Berlusconi conferma la linea fin qui seguita dall'esecutivo, rivendicando i risultati "senza precedenti" conseguiti in soli due anni (6.500 arresti di mafiosi, 26 tra primi 30 più pericolosi, e 30 mila beni sequestrati per un valore di 15 miliardi di euro), grazie alle misure repressive "di grande efficacia" introdotte, e assicurando di voler "continuare nella lotta senza tregua alla criminalità organizzata". L'impegno anche sull'immigrazione è di "procedere sulla strada già percorsa", che "grazie alla politica dei respingimenti" e degli accordi bilaterali ha dato "grandi successi", "riducendo dell'88 per cento gli sbarchi dei clandestini". Berlusconi ha infine ricordato il modo in cui il governo ha saputo affrontare l'emergenza Abruzzo, quella dei rifiuti in Campania, il caso Alitalia, la crisi economica e il contrasto all'evasione fiscale.

martedì 17 agosto 2010

PERCHE’ CREDIAMO NEL POPOLO DELLA LIBERTA’





Due anni di crescenti contrapposizioni all'interno del Pdl sono culminati con la riunione dell'Ufficio di Presidenza che ha approvato il documento di censura nei confronti di Gianfranco Fini e deferito ai probiviri tre parlamentari aderenti al PdL.Questo episodio, com'era prevedibile, ha scatenato l'accelerazione politica che ha portato alla nascita del gruppo Parlamentare "Futuro e Libertà" e alla violenta campagna politica contro il Presidente della Camera lanciata dai giornali più vicini al centrodestra.Per chi, come noi, è entrato nel PdL insieme a Gianfranco Fini - condividendo una decisione da lui assunta in prima persona - dopo decine di anni di battaglie comuni all'interno della destra politica, non si tratta di una vicenda entusiasmante né di un passaggio politico da sottovalutare sul piano umano come su quello politico.Non ci interessa in questa sede entrare negli innumerevoli scontri polemici che stanno contrassegnando quest'estate, ma compiere un'analisi politica ed ideologica che dia fondamento alla nostra scelta di rimanere all'interno del Popolo della Libertà e a fianco di Silvio Berlusconi, a prescindere da qualunque comprensibile reazione emotiva e da ogni forma di semplice opportunismo politico.Noi nel Popolo della Libertà ci crediamo realmente. Questo partito politico nasce da una necessità storica e si fonda su una sintesi politico-culturale la cui importanza diventa sempre più evidente nel corso del tempo.Dopo decenni di emarginazione e di auto-ghettizzazione nella prima Repubblica, la destra doveva uscire dall'isolamento, liberandosi da ogni scoria nostalgica e autoritaria, per diventare determinante nella vita politica e nel governo dell'Italia.Questa necessità si è risolta nell'incontro fra Alleanza Nazionale e Forza Italia e nella nascita dei governi di coalizione della Casa della Libertà. Ma, segnatamente in quel periodo, è emersa con chiarezza la progressiva sovrapposizione dei ruoli e dei contenuti politici di questi due Partiti: Alleanza Nazionale, proprio sotto la spinta dei numerosi "strappi" di Fini, veniva percepito come un partito sempre meno di destra e sempre più proteso – spesso in modo confuso - verso istanze di tipo liberale, mentre Forza Italia ha cessato quasi subito di essere un "partito liberale di massa" facendo propri contenuti di tipo identitario, tradizionalista e popolare.La sovrapposizione tra An e Fi era giunta a dei livelli così paradossali da registrare vicinanze e lontananze tra i diversi esponenti politici, alleanze e conflitti, totalmente indipendenti dall'appartenenza a uno di questi due Partiti. Queste trasversalità erano evidenti soprattutto in Alleanza Nazionale dove il maggior tasso di elaborazione ideologica e il minor grado di adesione fideistica alla leadership, facevano emergere crescenti contraddizioni e difficoltà nell'elaborare una specifica linea politico-programmatica. Se vogliamo, queste contraddizioni erano figlie lontane delle antiche correnti ideologiche del Msi, dove tendenze sociali ed estremismi liberisti, spinte stataliste e cultura comunitaria, sono spesso entrati in conflitto pur nell'ambito ristretto di un partito piccolo ed isolato.Era quindi necessario e indifferibile abbattere la barriera divisoria tra due partiti "contenitore" quali erano diventati An e Fi. D'altra parte è molto preferibile costruire la sintesi politico-programmatica del centro-destra all'interno di un unico partito, dove non si possono produrre quelle contrapposizioni strumentali che nascono dalla concorrenza elettorale di più formazioni all'interno dello stesso schieramento politico.Le prospettive che si aprono all'interno del Popolo della Libertà sono realmente entusiasmanti. Dalla reciproca contaminazione di ciò che stanno via via elaborando le diverse personalità che oggi siedono nel Governo o che dirigono le tante fondazioni fiorite in questi anni, emerge l'unica autentica sintesi di valori, di idee e di riforme in grado di costruire un progetto-paese all'altezza delle sfide della Globalizzazione.Usando vecchie categorie politiche, potremo perfino dire che il Popolo della Libertà oggi si colloca più "a destra" dell'ultima fase di Alleanza Nazionale, dove già emergevano le contraddittorie istanze radical-libertarie che hanno sempre più caratterizzato il percorso politico di Gianfranco Fini.E qui veniamo all'esito della scissione che di fatto si è prodotta dopo l'ultima riunione dell'Ufficio di Presidenza. Attorno al Presidente della Camera si è riunito un gruppo di parlamentari in larga parte già raccolto nelle associazioni e fondazioni della cosiddetta "area finiana". Sottolineiamo questo aspetto per evitare di ridurre il significato di questa aggregazione ad una semplice reazione contro la pesante censura che l'Ufficio di Presidenza ha voluto infliggere a Gianfranco Fini."Futuro e Libertà" riproduce in buona parte le contraddizioni presenti nel contesto di Alleanza Nazionale, e quindi appare in bilico tra un percorso politico di posizionamento all'interno del centro-destra e una convergenza con altre aree centriste che da tempo si sono messe in contrapposizione con Silvio Berlusconi. Sembrerebbe più probabile la seconda ipotesi, come risulta dalla scelta di espungere dal nome del nuovo gruppo tutti i concetti caratterizzanti "a destra" (il richiamo alla sigla di An, la parola "nazione", il valore del popolarismo, per non parlare della parola "destra") per affidarsi a termini generici come "futuro" e "libertà". Più ancora, l'elemento che sembra caratterizzare molti degli appartenenti al gruppo (con le solite debite eccezioni) è una crescente diffidenza verso i valori fondanti dell'identità e della tradizione, che invece assumono sempre più peso all'interno delle elaborazioni e delle proposte del Pdl.In ogni caso, come ai tempi di Alleanza Nazionale e Forza Italia, il principale riferimento che porta a dividersi non è politico ma personale: la contrapposizione tra la leadership di Gianfranco Fini e quella di Silvio Berlusconi. Chi proviene da Alleanza Nazionale ha molti motivi storici e personali per essere legato al Presidente della Camera e tanti tra noi speravano che si creasse una naturale successione tra Berlusconi e Fini. Ma dal punto di vista politico nessuno può dimenticarsi che il principale protagonista della storia recente del centro-destra è stato ed è Silvio Berlusconi, senza il quale sarebbe obiettivamente difficile immaginare la nascita dello schieramento in cui stiamo operando ormai da sedici anni. L'investitura popolare si è sempre raccolta attorno al Presidente del Consiglio che, nonostante difficoltà e ostacoli di ogni tipo, ha guidato fin dall'inizio il principale partito del centro-destra. Da tutto questo non si può prescindere se si crede nella storia stessa del centro-destra italiano e se si misurano i catastrofici risultati di tutti i tentativi (compreso "l'Elefantino" dell'alleanza tra An e Segni) di creare alternative alla leadership di Silvio Berlusconi.Peraltro, accorgersi solo ora, dopo sedici anni, che il Presidente del Consiglio avrebbe un concetto della politica "aziendalista" e "personalistico" suona francamente tardivo e pretestuoso.Oggi non siamo in grado di dire dove andrà a parare "Futuro e Libertà", ma se esaminiamo le linee di tendenza che caratterizzano da tempo l'azione politica di Gianfranco Fini, dobbiamo temere l'accentuazione di quei caratteri di cosiddetto "patriottismo costituzionale", che portano al superamento dei valori di identità e di tradizione, a scegliere il politically correct in materie delicatissime come l'immigrazione e il rapporto con l'Islam presente in Europa, fino ad accostarsi alle forme di un radicalismo liberal e di un giacobinismo giustizialista ed anticattolico. Ne costituiscono conferma non solo le ricorrenti prese di posizione dei parlamentari e degli intellettuali "finiani" a favore di leggi ostili alla vita e alla famiglia naturale, ma anche l'aver proposto una riedizione del "professionismo dell'antimafia" e del giustizialismo come strumenti di lotta interna al centro-destra.

Tutto ciò rischia di allontanare la nuova aggregazione dalle ragioni politiche del centro-destra per avvicinarla pericolosamente ad una area indistinta che va dalla sinistra al centro moderato.Ci auguriamo che non sia così e che Gianfranco Fini e "Futuro e Libertà", nonostante tutto, trovino modo di rimanere all'interno del nostro schieramento per esercitarvi una funzione positiva e creativa, riportando la loro ansia di "rinnovamento" nell'alveo dei valori e dei progetti del centro-destra italiano.In ogni caso il nostro compito è profondamente diverso. Noi dobbiamo lavorare all'interno del Popolo della Libertà per farlo crescere politicamente, culturalmente e sul piano organizzativo, per non sciupare un'occasione storica di superamento definitivo della contrapposizione fra il centro e la destra.La difficile situazione in cui vive il nostro Paese, la crisi globale che sta mettendo in discussione i fondamenti stessi del " Pensiero unico mercatista", ci obbliga a lavorare per fare emergere una agenda di riforme chiare e profonde, di segno completamente opposto alla cultura radical-progressista che domina il nostro Paese dalla fine degli anni sessanta.Noi giudichiamo le difficoltà che sta vivendo il Popolo della Libertà come la naturale crisi di crescita di un soggetto politico appena costituito, che deve organizzarsi in modo partecipativo e democratico per non dipendere unicamente dal proprio fondatore e per proiettarsi verso il futuro.E' necessario convocare i congressi comunali e provinciali del Pdl per superare definitivamente, partendo dalla base del partito, la logica delle "quote" di provenienza e per far emergere nei ruoli dirigenziali il personale politico più meritevole e rappresentativo. Al rinnovamento della classe dirigente locale deve corrispondere un rafforzamento della struttura centrale, per arrivare rapidamente al pieno funzionamento dei Dipartimenti e delle Consulte e alla convocazione sistematica e puntuale di tutti gli organi politici decisionali.Il rilancio politico ed organizzativo del Pdl deve anche permettere al nostro Partito di dare risposte credibili alla "questione morale", senza cedere ai processi mediatici e al giustizialismo dell'antipolitica. Sono gli organi di Partito che devono decidere, prima di arrivare alle sentenze definitive della magistratura, quali provvedimenti assumere di fronte alle accuse che, soprattutto dalle pagine dei giornali, vengono lanciate contro nostri autorevoli esponenti. Attorno a queste scelte si deve compattare tutto il Popolo della Libertà proprio per evitare che siano talune Procure e taluni organi di informazione a dettare la nostra agenda politica e le nostre priorità morali.D'altra parte, la debolezza della politica di fronte al potere giudiziario, che siamo impegnati a combattere, non deve essere un alibi per negare la necessità e l'urgenza di quella articolata riforma della macchina della Giustizia che tutti gli italiani si attendono da tempo.Dopo l'approvazione della più difficile manovra economica degli ultimi anni, l'azione del Governo e del Parlamento deve concentrarsi su un nuovo patto economico e sociale - di cui, anche grazie all'auto-isolamento della Cgil, ci sono tutte le premesse nelle rappresentanze sindacali ed imprenditoriali - per rilanciare lo sviluppo, superare la crisi e fondare una nuova giustizia sociale libera da ogni forma di assistenzialismo.L'anniversario dei 150 anni di Unità nazionale può essere l'occasione culturale per porre fine ad ogni contrapposizione tra autonomie locali ed identità nazionale, mentre l'attuazione della riforma del federalismo fiscale deve portare a responsabilizzare tutti i diversi livelli istituzionali, combattendo gli sprechi ed eliminando qualsiasi alibi per tentazioni secessioniste e conflitti tra il Nord e il Sud dell'Italia. Il Popolo della Libertà proprio per non lasciare troppo spazio alla Lega Nord, deve prendere in mano la bandiera di un federalismo solidale, profondamente radicato nella nostra identità ed unità nazionale, realmente ispirato dal principio della sussidiarietà.Ma, soprattutto, non possiamo mettere in secondo piano gli insegnamenti vitali e terribilmente attuali che ci vengono dalla nostra identità e dalla nostra tradizione, come la necessità di radicare il principio della cittadinanza nell'identità nazionale contro ogni infatuazione immigrazionista, di difendere in modo intransigente i valori della vita e della famiglia, di promuovere tutte le appartenenze comunitarie, il merito e la dignità della persona umana. Proprio in questi giorni il Presidente Sarkozy, dopo aver visto il proprio consenso precipitare verso il basso con il rischio di una rinascita del Front Nazional, ha pensato bene di tornare alle origini del proprio successo, rilanciando politiche di difesa della legalità e di contrasto dell'immigrazione e del nomadismo clandestini.Per realizzare questi obbiettivi nulla è più negativo che collocarsi ai margini dell'azione politica del centro-destra, assumendo un atteggiamento ipercritico e pessimista, offrendo oggettivamente sponde politiche agli attacchi distruttivi di un centro-sinistra che si è ridotto a vivere solo in funzione anti-berlusconiana.Il Popolo della Libertà può e deve crescere, se è necessario deve essere corretto e migliorato, nella piena consapevolezza che la costruzione del più grande partito della storia repubblicana italiana è un compito difficile e complesso.Parallelamente il governo Berlusconi deve continuare nella sua azione, senza essere sottoposto a ricatti e condizionamenti strumentali. Questa necessità e non altro, è la pietra di paragone per decidere – fatte tutte le più opportune ed approfondite verifiche politiche e parlamentari – se completare o meno questa legislatura. O si continua a governare secondo il mandato degli elettori, con una capacità decisionale adeguata al difficile periodo che stiamo vivendo, oppure è meglio andare subito a votare.In ogni caso, nessuno di noi può permettersi di rimettere in discussione un percorso politico che ormai attraversa più di sedici anni della nostra storia, per dare ragione ai teoremi ideologici e alle spinte dissolutrici di una sinistra che, ancora oggi, sogna una destra nel ghetto e un centro privo di identità e di valori.

CIRCOLI DELLA NUOVA ITALIA

Roma, 10 agosto 2010

domenica 15 agosto 2010

"Io ho arrestato Riina: la politica rimase fuori i magistrati invece..."


Il maresciallo in congedo dei carabinieri Roberto Longu ha fatto parte del Crimor-Unità militare combattente, l’Unità della 1ª Sezione del 1° Reparto del Ros nata subito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, nel settembre del ’92, con compiti di contrasto alla criminalità organizzata. Il gruppo, guidato da Sergio De Caprio, meglio noto come Capitano Ultimo, il 15 gennaio del 1993, a Palermo, mise a segno il colpo più grosso: l’arresto del capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina. Il maresciallo Longu nella sua lettera racconta come andò quella cattura. E spiega perché, quando intervennero i giudici, tutto finì.

Roberto Longu

sono un maresciallo dei carabinieri in congedo, nonché appartenente a Crimor, il gruppo del capitano Ultimo che ha arrestato Totò Riina. Le scrivo perché dopo aver sentito sciocchezze tra la trattativa di Stato e la mafia, il tentativo di colpo di Stato, l’arresto di Riina, le accuse al capitano Ultimo, al generale Mori e generale Ganzer, voglio offrire il pensiero e il racconto di chi le cose le ha vissute e fatte in prima persona.
Massimo Ciancimino parla e dopo vent’anni si torna a parlare con insistenza della morte di Falcone e Borsellino, trattativa tra mafia e Stato; politici e magistrati che parlano di tentativo di colpo di Stato, servizi segreti deviati, signor Franco eccetera... La grande mano del «livello superiore», intoccabile e soprattutto introvabile, la solita storia. Infangare il Paese e chi ha veramente lavorato per il bene dell’Italia.
Ebbene, voglio raccontare in breve la storia della cattura di Totò Riina. Il nostro gruppo, Crimor, lavorava a Milano occupandosi di Cosa nostra. Tutti dicevano che a Milano la mafia non esisteva. In pochi anni, con varie indagini mettiamo in luce che a Milano la mafia esiste ed è anche ben radicata, arrestiamo e sgominiamo le famiglie Carollo e Fidanzati. Siamo un gruppo di professionisti coordinato da un grande comandante, il capitano Ultimo. Siamo anche molto amici di Falcone, e facciamo riferimento a un grande generale, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il nostro simbolo. Il nostro motto è «lavorare per il popolo oppresso».
Il giorno della morte di Falcone ci ritroviamo nel nostro ufficio e siamo sgomenti; ci guardiamo in faccia, siamo una decina, e prendiamo una decisione che nasce spontanea. Andiamo a Palermo ad arrestare Totò Riina e smantellare la sua organizzazione. È quel giorno che nasce la fine di Riina. La mafia ha ammazzato il generale, giudici, colleghi, ora Falcone e in quel modo, ci sentivamo in dovere di fare qualcosa e mettere fine al massacro. Nessuna organizzazione segreta o chissà quale piano strategico messo in piedi con la mafia. Dieci persone che disprezzano la mafia e lavorano per il popolo oppresso decidono di catturare Salvatore Riina, l’imprendibile.
Viene data comunicazione delle nostre intenzioni al generale Mori, che a quel tempo era colonnello e vicecomandante del Ros, il quale inoltra le nostre intenzioni direttamente al Comando che accetta e ci dà il via. Di quel tempo ricordo una cosa, il terrore delle istituzioni, Totò Riina imprendibile che mette sotto scacco l’Italia, le grandi lacerazioni della magistratura palermitana, che era quasi tutta schierata contro Falcone e Borsellino che quasi venivano presi per pazzi. Oggi parlano bene, ma ieri razzolavano male, molto male.


Fui io, insieme al mio collega Ombra, a mettere per primo il piede a Palermo; facemmo le prime ricognizioni, le prime verifiche sugli obiettivi e sui personaggi. Rimasi quasi sconvolto per la mancanza di indagini, riscontri, indizi investigativi. La magistratura faceva pochissimo, le forze di polizia operavano fuori Palermo, la politica proprio non si vedeva e sentiva. Oggi mi viene da ridere quando sento tutti quei magistrati di Palermo che parlano di Antimafia. Ma dove erano allora? Cosa facevano?
Naturalmente l’indagine nasce in clandestinità, non ci fidavamo di nessuno, va avanti per circa sette mesi di grandi sacrifici, troviamo gli indizi, le tracce di Riina attraverso i Ganci e arriviamo vicino al suo rifugio, pochi giorni e avremmo trovato la casa.
Il fato ci mette la coda. In quei giorni al Nord viene arrestato Balduccio Di Maggio, che si pente e dice di essere stato l’autista di Riina sino a qualche anno prima.
Viene portato a Palermo, racconta che quando faceva da autista prendeva Riina lungo la strada, alla Rotonda di viale Michelangelo, vicino al famoso Motel Agip, senza però indicare un obiettivo preciso. Per noi quella zona era altamente strategica poiché avevamo individuato un obiettivo frequentato dal mafioso Domenico Ganci, da noi ritenuto molto vicino a Totò Riina. Mettiamo sotto osservazione un’abitazione e filmiamo chi entra e chi esce, li facciamo visionare al pentito il quale riconosce la moglie e i figli di Riina. L’indomani ci posizioniamo, esce Riina e l’arrestiamo. Questo in breve.
Il pentito è stata la nostra sfortuna più grande. In primo luogo perché ha fatto sì che l’indagine fosse conosciuta dalla magistratura, la seconda perché non è stato più possibile portarla avanti con le nostre modalità operative. Noi, per nostro modus operandi, quando trovavamo un latitante non lo arrestavamo subito, anzi lo facevamo stare libero, però lo seguivamo, gli stavamo vicino 24 ore su 24 per capire i suoi percorsi, analizzare i suoi obiettivi, verificare la struttura organizzativa, documentarla, farne prova e poi annientare l’intera struttura. Questo era in origine il nostro obiettivo con Riina. Analizzare i suoi movimenti, le dinamiche operative di Cosa nostra partendo dal vertice, studiare i loro percorsi mentali per poi annientarli e distruggerli. Questo era il nostro obiettivo finale, con il risultato immediato di catturare Riina e distruggere la cupola.
Dopo il pentito questo non fu più possibile, tutti volevano esclusivamente l’arresto di Riina. Tutti volevano dirci cosa fare, fu solo grazie alla determinazione del colonnello Mori e del capitano Ultimo che le cose andarono come sono andate, altrimenti penso che Riina l’avrebbe fatta franca anche allora.
E per fortuna che andò così, se avessimo fatto secondo i nostri propositi ci avrebbero arrestati tutti per essere mafiosi, visto com’è andata con la perquisizione, non fatta solo esclusivamente per questioni investigative e legate all’indagine.
Parla Massimo Ciancimino, si parla di trattativa mafia-Stato, papello e terzo livello. Per noi Vito Ciancimino all’interno della mafia a quel tempo non contava più niente, roba vecchia che la mafia aveva abbandonato, com’è suo costume quando una cosa non serve più. È stato ascoltato perché voleva parlare, com’è giusto che faccia un investigatore quando si presenta un criminale. Probabilmente oggi una certa magistratura, se non fosse stato ascoltato, direbbe che non fu sentito per aiutare la mafia. Politici di oggi e di ieri e magistrati che parlano di trattative tra Stato e mafia. Dovrebbero spiegare cosa facevano allora, visto che facevano parte dello Stato. Può mai un generale o un capitano trattare per lo Stato senza che questi non sappia nulla? Io penso di no.
È di questi giorni la notizia della condanna al generale Ganzer e colleghi, questo deve far riflettere e molto sullo stato della magistratura e delle forze di polizia. Deve far riflettere perché ormai è sempre più evidente l’anomalia del Codice di procedura penale, ovvero le indagini dirette e coordinate dai magistrati. È qui l’errore di fondo. Un magistrato non può gestire delle indagini, le indagini le devono gestire e fare le forze di polizia. Perché, vede, un’indagine è un processo sociale, in quanto coinvolge la gente; è un processo psicologico in quanto coinvolge le strutture mentali delle persone; è un processo sistemico dove la cosa più logica alle volte non è la più giusta per il fine superiore, che è quello del bene comune. L’indagine è compito del poliziotto che vive e opera tra la gente, che conosce la strategia, la tattica e il terreno su cui combatte.
Ma lei ha mai visto un magistrato fare un pedinamento, uscire per strada e seguire un mafioso o un presunto ladro di biciclette? Io mai. E allora come fanno a dirigere le indagini (e dirigere significa comandare) quando non hanno la benché minima conoscenza del sistema? Un vero investigatore trova i riscontri e gli indizi sul terreno attraverso osservazione e pedinamento, e solo allora chiede le intercettazioni. Perché le intercettazioni per gli investigatori sono delle vere sciagure, hanno bisogno di verifiche, controlli, molto personale levato alla strada. Un investigatore intercetta solo quando c’è quasi la certezza dei reati. Per un investigatore le intercettazioni sono di ausilio alle indagini e non lo strumento principale.
Oggi siamo al contrario, si fanno le intercettazioni, si arrestano e si mettono alla gogna i cittadini senza un riscontro oggettivo e poi vengono scarcerate e tante scuse e grazie. C’è bisogno di cambiare il Codice di procedura penale e dare la direzione delle indagini alla polizia. I miei ex colleghi mi dicono che ormai non fanno più nulla di iniziativa, hanno paura di lavorare perché un magistrato potrebbe indagarli e metterli alla gogna peggio dei criminali. Io stesso oggi, vedendo com’è andata ai miei comandanti, non so se prenderei le decisioni che ho preso in passato. Sa cosa mi dice mia figlia a proposito dei guai al generale Mori e capitano Ultimo? «Papà, Riina era da vent’anni latitante e non è successo nulla, voi lo arrestate, mettete sotto la mafia e i magistrati vi incriminano. C’è qualcosa di strano, ma non è che i magistrati si sono arrabbiati perché lo avete arrestato?».

*Maresciallo dei carabinieri in congedo - Componente del gruppo guidato dal capitano Ultimo che arrestò Totò Riina

venerdì 13 agosto 2010

Pdl-Lega: Governo avanti, voto unica alternativa a Berlusconi



Se il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervistato da l'Unità, mette in guardia dal rischio del "vuoto politico" e di elezioni anticipate, e chiede alle forze politiche di "abbassare i toni, di compiere uno sforzo di responsabile ponderazione tra le esigenze della chiarezza politica e quelle della continuità della vita istituzionale", anche il presidente del Senato, Renato Schifani, intervistato dal Corriere della Sera, chiede che "si depongano le armi" e che "prevalga il senso di responsabilità", che vengano "bandite le forme di rivalsa e di ritorsione, questo scambio di accuse violente che ha superato ogni limite", e che sia "cercata una mediazione: ce n'è la possibilità e ce n'è l'esigenza nell'interesse generale". Ma avverte anche che per capire se questa legislatura potrà proseguire a settembre serve un "chiarimento" in Parlamento, attraverso un documento programmatico del governo "che dovrà essere il più analitico possibile, per evitare che si ripeta lo scenario già visto sulle intercettazioni. Il Paese chiede le riforme strutturali. Se la maggioranza ci riuscirà, allora la legislatura sarà salva. Altrimenti occorrerà andare subito" al voto. La seconda carica dello Stato premette che "in caso di crisi l'attuale Costituzione prevede ovviamente che tocchi a lui (al capo dello Stato, ndr) l'ultima parola su nuove ipotetiche maggioranze parlamentari", ma non rinuncia a ribadire la propria "riflessione squisitamente politica": in caso di crisi, no a un governo tecnico o a termine, quindi "debole", perché "ci esporremmo alle speculazioni finanziarie e metteremmo a repentaglio i conti pubblici" e perché, ricorda Schifani, "nelle democrazie maggioritarie vale il principio che i governi siano scelti dagli elettori", quindi un eventuale governo tecnico "provocherebbe un grave vulnus ai principi della democrazia". Per evitare il ritorno al voto, dunque, a suo parere c'è una sola strada percorribile: la "cessazione del conflitto politico-istituzionale" e "il ricompattamento della maggioranza". Parole condivise dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, secondo cui "impongono a tutti una riflessione sulla necessità che cessino dichiarazioni estremistiche che certamente non giovano all'immagine del Paese". "E' evidente - osserva - che mentre va riaffermato il diritto-dovere di chi ha vinto le elezioni di governare nell'interesse dei cittadini, va anche ribadito, come sottolinea il presidente Schifani, che legittimità e legittimazione a governare spettano a chi ha ricevuto il mandato elettorale".

"Bene il monito di Napolitano" per l'Idv, che "confida nella sua saggezza". Parole "ineccepibili" quelle di Napolitano, per la presidente del Pd Rosy Bindi; "ispirate dalla Costituzione", commenta Filippo Penati del Pd, mentre "purtroppo non si può dire altrettanto per quelle usate dal presidente del Senato Schifani", aggiunge, definendo "irresponsabili e gravi le reazioni di numerosi esponenti della maggioranza e del governo". "Parole responsabili e condivisibili" anche per il webmagazine della fondazione FareFuturo diretto da Filippo Rossi, il quale ricorda che "la Costituzione viene prima di tutto e di tutti. E viene anche prima di Silvio Berlusconi", anche se "per qualcuno sarà doloroso accettarlo". Se i finiani Italo Bocchino, Silvano Moffa e Pasquale Viespoli invitano tutti a "riflettere" sulle parole del presidente Napolitano, il quale chiede che cessi la "campagna gravemente destabilizzante" nei confronti del presidente della Camera, il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, ricorda che "proprio qualche giorno fa il presidente del Consiglio ha auspicato una soluzione positiva alle questioni più urgenti della società italiana prospettando che su alcuni punti specifici (Sud, riforma della giustizia, fisco, riforme costituzionali e federalismo) il governo, alla ripresa di settembre, presenti precise proposte e anche iniziative di legge in Parlamento". Ma "nel caso in cui - avverte Cicchitto - l'azione di sabotaggio, svolta da alcuni gruppi politici e da alcuni gruppi finanziario-editoriali, ottenga il risultato di una mancata verifica positiva in Parlamento, allora l'unica via legittima e seria, coerente anche col bipolarismo, è quella di elezioni anticipate", mentre "non sono per niente condivisibili le ipotesi di governi tecnici e di governi di transizione" e "qualora decollassero operazioni di questo tipo, sarebbe legittimo sviluppare le più incisive manifestazioni politiche, in Parlamento e nel Paese". Sulla stessa linea il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, secondo il quale "anche il Quirinale sa che chi ha vinto le elezioni non può essere messo all'opposizione con giochi di Palazzo. Quindi o va avanti il governo Berlusconi o si vota". Bisogna "rispettare le prerogative del capo dello Stato - continua - ma tutti devono rispettare le regole fondamentali della democrazia. Su questo saremo chiari ad ogni livello. L'Italia dei ribaltoni di corte appartiene agli incubi del passato. E Napolitano, ne siamo certi - conclude - non officerebbe mai riti contro la democrazia come uno Scalfaro qualunque".

Confermata anche la posizione della Lega (governo Berlusconi o ritorno alle urne), tramite il capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni: "Qualora potessimo proseguire senza intoppi nell'azione di governo, il Paese ne trarrebbe sicuri benefici. Se però non dovessero esserci, per decisione arbitraria, unilaterale e non condivisa di taluni parlamentari, i numeri per assicurare un governo forte e autorevole, non vedo molte alternative praticabili rispetto al voto". Tra l'altro, osserva, "le condizioni economiche ed internazionali richiedono un esecutivo autorevole e con il sostegno democratico dei cittadini, non un governo nato per alchimia dei salotti romani. E' prerogativa indiscussa del Capo dello Stato - ricorda Reguzzoni - decidere il da farsi e abbiamo la certezza che, con autorevolezza, il presidente Napolitano prenderà le giuste decisioni, se e quando si presenteranno le condizioni". Commentando l'intervista di Napolitano a l'Unità, il ministro Sandro Bondi osserva che "in una situazione di perduranti difficoltà economiche" è "meglio il ricorso al voto piuttosto che la paralisi politica". "Così come appare evidente a tutti - rileva - che le uniche campagne di destabilizzazione che si conoscano da anni ormai hanno di mira il presidente del Consiglio e il suo partito senza che nessuno mai lo abbia denunciato con la necessaria forza". Ancora più critico sull'intervento del capo dello Stato il deputato Pdl Giorgio Stracquadanio: "Sorprende e inquieta che il Capo dello Stato per esternare un suo punto di vista su un tema che non è ancora all'ordine del giorno utilizzi il giornale del suo ex partito, l'Unità". Una "prassi inedita", prosegue, "che rileverebbe un tentativo di indirizzare le scelte istituzionali al di fuori della via maestra che la Costituzione repubblicana indica: le elezioni politiche generali, infatti, sono l'unico rimedio democratico a una eventuale crisi politica della maggioranza parlamentare" e "che il Capo dello Stato annunci anzitempo che si opporrà a questa prospettiva con tutte le sue forze e lo faccia da un giornale di partito che lo ha visto militare per una vita, pone un serio interrogativo sulla indipendenza e la neutralità del supremo garante della Costituzione".

sabato 7 agosto 2010

Evasione fiscale e mafia i successi che la sinistra non ebbe mai


Dove sono finiti gli scettici blu, quelli dell'opposizione sempre pronti a sostenere che soltanto loro sono in grado di combattere l'evasione fiscale, certo non il centrodestra? I risultati dei primi sette mesi del 2010 rivelano che il Fisco ha incassato 4 miliardi 900 milioni di euro, il 9 per cento in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, e li ha incassati proprio dalla lotta all'evasione. Ha funzionato bene il redditometro introdotto dal Governo, ha funzionato anche una maggiore sorveglianza sulle compensazioni indebite dei crediti di imposta.

In definitiva, hanno dato ottima prova le linee indicate dal Governo. E allora, cosa diranno ora i soliti Soloni sempre pronti a indicare nella lotta contro l'evasione del Fisco e in quella contro la criminalità organizzata i punti deboli, si fa per dire, del Governo attuale? Si sentiranno dire dall'opinione pubblica, che certamente e' più accorta dei loro quotidiani, che l'accusa e', in tutti e due i casi, falsa e pretestuosa.

Il Governo ha infatti sfoggiato una capacita' di combattere il crimine sconosciuta ai governi precedenti della sinistra. Mai si era sfiorata la quota di 15 miliardi di euro di beni mobili e immobili sequestrati alla mafia, alla camorra e alla ‘Ndrangheta in così breve lasso di tempo. Mai la Guardia di Finanza aveva conseguito così tanti successi contro gli evasori.

E così ci troviamo di fronte all'ennesima puntata di questa telenovela in corso nel nostro Paese: i fatti vincono sempre sulle chiacchiere e ancora una volta la sinistra ha fatto fiasco!

mercoledì 4 agosto 2010

Federalismo, primo ok del Cdm al decreto sul fisco comunale


L'aliquota sulla cedolare secca sugli affitti fissata al 20%

ROMA - Primo via libera del Consiglio dei ministri al quarto decreto attuativo del federalismo fiscale, quello sul fisco comunale, con una novita': la cedolare secca sugli affitti scende repentinamente di 5 punti percentuali rispetto alle precedenti bozze del provvedimento. Si passa cosi' dal 25 al 20% a partire gia' dal 2011, anche se sulla tempistica incidera' anche la durata dell'esame del provvedimento da parte della Conferenza Stato-Regioni e del Parlamento che da settembre dovranno esaminarlo. La nuvita' sulla cifra dell'aliquota sulle locazioni viene confermata dal ministro della Semplificazione Roberto Calderoli. Si abbassano anche, rispetto alle attuali, le aliquote riguardanti le compravendite delle prime e delle seconde case che, in base al decreto passano direttamente ai municipi, per quanto riguarda quella sulle seconde case si passa, come spiega sempre il ministro, dal 10 all'8%, mentre quella sulle prime case dovrebbe essere al 2 o al 3%. I tecnici sarebbero comunque ancora al lavoro sulle ultime limature e gli ultimi calcoli, che, in ogni caso, non cambierebbero l'impianto del testo. Esulta l'Anci che, proprio in attesa del provvedimento, aveva in parte sospeso il proprio giudizio sui tagli inseriti nella manovra per gli enti locali. Il 'patto' con il governo era quello di varare il decreto sul federalismo comunale entro il 31 luglio, ma il confronto serrato proprio con i Comuni ha fatto slittare, anche se solo di qualche giorno, l'approdo del testo al Cdm. L'abbassamento di cinque punti della cedolare arriva anche dopo un deciso pressing delle associazioni dei proprietari delle case. Nonostante l'aliquota al 20% sia di fatto conveniente, specie per chi ha reddito alto, chi vorra' potra' comunque continuare a pagare con il metodo attuale che prevede aliquote diverse in base agli scaglioni di reddito. ''E' un quarto importante passo per il federalismo'', dice il ministro della Semplificazione commentando il primo ok del Consiglio dei ministri che dovra' tornare a esaminarlo per il via libera definitivo dopo un passaggio alla Conferenza Stato-Regioni e alla bicameralina per il federalismo fiscale. Un ''tassello importante'' anche per il ministro degli Affari Regionali Raffaele Fitto. Con il decreto arrivera' anche, dal 2014 l'imposta municipale che, di fatto, si fa in due: oltre al prelievo sul possesso, infatti, e' previsto che i municipi incassino anche il tributo sulle compravendite sulle prime e le seconde case. I comuni potranno modificare le aliquote dal 2017. A questo si aggiunge una 'imposta municipale' facoltativa che, dopo aver ascoltato i cittadini in un referendum, i comuni potranno decidere per incorporare gli attuali prelievi sull'occupazione del suolo pubblico e su insegne e cartelloni pubblicitari.

Come è stata svenduta l’Italia (Dal sito www.disinformazione.it)


Cari amici leggendo alcuni commenti di amici su facebook sono finito ha leggere un'articolo proposto dal sito www.disinformazione.it che ritengo interessante ma anche preoccupante.Se anche solo la meta' di quello che riporta questo sito e' vero,bhe si arriva a capire i molti problemi del nostro paese a livello economico e di debito pubblico. Ho quindi deciso si riportare qui' sul mio blog questo articolo. Lascio a tutti voi le conclusioni e attendo i vostri commenti.Luca

Come è stata svenduta l’Italia
di Antonella Randazzo per www.disinformazione.it - 12 marzo 2007
Autrice del libro: "DITTATURE: LA STORIA OCCULTA"

Era il 1992, all'improvviso un'intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant'anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava.
Cos'era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali?

Mentre l'attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese.
Con l'uragano di "Tangentopoli" gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l'Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d'Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata "privatizzazione".

Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L'allora Ministro degli Interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l'uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal Ministro degli Interni. L'attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante.

Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.

Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: "Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi".
Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il "nuovo corso" degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993.

Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della "strategia della tensione", e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un'autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un'altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un'autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone. I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse "colpire le opere d'arte nazionali", ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle "menti più fini dei mafiosi".[1]

Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull'economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria.
Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia: "la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo stato e piegarlo ai propri voleri", Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: "non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste".[2]

I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: "Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm".[3]
Anche il Pubblico Ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: "Su un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti".[4]
Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo.[5]

Che gli assassini di capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano.
Il Ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: "Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana".[6] Lo stesso presidente del consiglio Amato, durante una visita a Monaco, disse: "Falcone è stato ucciso a Palermo ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove".
Probabilmente, le tecniche d'indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell'anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell'onestà e dell'assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale La Repubblica: "Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato".[7]

L'omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell'élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, Procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: "Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura... Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi... è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove".[8]

Infatti, quell'anno gli italiani capirono che c'era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all'élite che coordina le mafie internazionali.
Quell'anno l'élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l'Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.

Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c'era in atto un'operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: "Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso: delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona".[9]

Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: "Bisogna stare attenti, molto attenti... Ho parlato del vecchio piano di rinascita democratica di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione... Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale. Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est... Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche".[10]

Anni dopo, l'ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: "Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leaders dei partiti di governo".
Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c'erano alcuni appartenenti all'élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers).

In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d'Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell'Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell'Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sulla Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c'erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani.
La stampa martellava su "Mani pulite", facendo intendere che da quell'evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.
Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell'Italia. Infatti, Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers.

Appena salito al potere, Amato trasformò gli Enti statali in Società per Azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l'élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare.
L'inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che, come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell'élite. L'incarico di far crollare l'economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane.
Soros ebbe l'incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall'élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli hedge funds per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.

Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull'Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d'Italia. C'erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell'élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d'Italia.
La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest'ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l'Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell'Europa e dell'Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.

In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul Financial Times, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L'accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani.
La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà:

Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell'economia produttiva e l'esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l'Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico.[11]

Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell'ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un'inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L'attacco speculativo di Soros, gli aveva permesso di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l'attacco, l'allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari.
Su Soros indagarono le Procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d'Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.
Spiegano il Presidente e il segretario generale del "Movimento Internazionale per i Diritti Civili - Solidarietà", durante l'esposto contro Soros:

È stata... annotata nel 1992 l 'esistenza... di un contatto molto stretto e particolare del sig. Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell'apparato della Banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria "Goldman Sachs & co." come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il sig. Soros conta sulla strettissima collaborazione del sig. Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della "Albertini e co. SIM" di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del "Quantum Fund" di Soros.

III. L'attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht "Britannia" della regina Elisabetta II d'Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell'industria di stato italiana. A seguito dell'attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell'economia nazionale e dell'occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all'incontro del Britannia avevano già ottenuto l'autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L'agenzia stampa EIR (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l'intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione.[12]

I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l'allora Direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l'allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all'allora capo del governo Giuliano Amato e al Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori.
Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la "necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo", pur sapendo che l'Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni.
Gli attacchi all'economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico- finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell'élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il Presidente del Consiglio Lamberto Dini disse:

I mercati valutari e le borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo... è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell'unificazione monetaria.[13]

Il giorno dopo, il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, riferiva che l'Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché "se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco".
Le nostre autorità denunciavano il potere dell'élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell'élite anglo-americana.

Il Movimento Solidarietà fu l'unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell'economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato.[14]
Il 6 novembre 1993, l 'allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare "le procedure relative al delitto previsto all'art. 501 del codice penale ("Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio"), considerato nell'ipotesi delle aggravanti in esso contenute". Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende.

Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia.
Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell'elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una S.p.a. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio.

Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva "risanare il bilancio pubblico", ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).
Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani.

Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell'élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l'acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell'ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche., e al Ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%.
Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del Gruppo Bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank.
Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell'élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un'opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l'Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L'Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno.

Il titolo, che durante l'opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.
Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla J. P. Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit).

Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita.
La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti.
La Telecom , come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all'interno società con sede alle isole Cayman, che, com'è noto, sono un paradiso fiscale.

Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull'esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema.
Mettere un'azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com'è emerso negli ultimi anni.

Anche per le altre privatizzazioni, Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia ecc., si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere.
La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l'onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti.
I Benetton hanno incassato un bel po' di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, Ministro delle Infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell'Unione Europea e alla politica del Presidente del Consiglio.

Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati.
La società Trenitalia è stata portata sull'orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c'è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l 'amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione Lavori Pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell'ottobre del 2006, il Ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un'azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.

Dietro tutto questo c'era l'élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild ecc.) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell'economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E' simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: "Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom".[15]
Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie ("Bond") con un alto margine di rischio. La Parmalat emise Bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative, e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.

Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l'agenzia di rating, Standard & Poor's, si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti.
I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale S.p.a. (società della famiglia Tanzi), Citigroup, Inc. (società finanziaria americana), Buconero LLC (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche SpA (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton S.p.a. (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat S.p.a.).

La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I "Partners" non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise Bond per circa 1.125 milioni di Euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.
Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all'élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero.
Agli italiani venne dato il contentino di "Mani Pulite", che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere.

A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia.
Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come "autorevoli" (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell'interesse di questa élite, e non in quello del paese.

Antonella Randazzo ha scritto Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa, 1870-1943, (Kaos Edizioni, 2006); La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell'era dell'egemonia Usa (Zambon Editore 2007) e Dittature. La Storia Occulta (Edizione Il Nuovo Mondo, 2007).

martedì 3 agosto 2010

Federalismo, domani in Cdm il decreto che completa quello comunale


Con il decreto attuativo sull'autonomia fiscale dei comuni, che sarà sul tavolo del consiglio dei ministri di domani, il governo compirà un giro di boa di grande importanza sulla road-map del federalismo fiscale. Il provvedimento, infatti, (il quarto di quelli previsti dalla legge-delega approvata a maggio dello scorso anno) conclude di fatto la fase "comunale" del passaggio al nuovo sistema fiscale, come annunciato dai ministri Tremonti, Bossi, Calderoli e Fitto nella conferenza stampa nella quale, lo scorso 30 giugno, è stata presentata la relazione sul federalismo fiscale. Dopo il decreto, approvato due settimane fa, che detta le procedure per individuare i fabbisogni-standard per i servizi erogati dagli enti locali, è la volta di quello che indica l'assetto e l'entità delle nuove imposte comunali. Nella relazione dello scorso giugno l'enfasi maggiore era per l'introduzione della cedolare secca sugli affitti che, stando alle anticipazioni, dovrebbe essere fissata al 25 per cento, con decorrenza dal primo gennaio 2011. Ma nella prima fase del federalismo municipale è prevista anche l'attribuzione ai comuni della titolarità di tributi che oggi sono statali, interenti al comparto territoriale e immobiliare. Si tratta di imposte come di bollo, di registro, d'ipoteca e di registrazione al catasto.

Una devolution di portata storica, dunque, di cui la cedolare secca rappresenta solo una porzione. In una seconda fase (sempre secondo le indiscrezioni individuata a partire dal 2014), dovrebbe partire l'imposta unica municipale che, come più volte ribadito, per la parte che insiste sul patrimonio immobiliare non graverà sulla prima casa. In questo caso, il meccanismo messo a punto dal governo secondo le linee annunciate un paio di settimane fa da Giulio Tremonti, prevede uno sdoppiamento in una parte cosiddetta "propria", e in una "facoltativa", che potrà essere introdotta dai comuni dopo un'apposita consultazione popolare. Si tratterebbe di una serie di imposte non propriamente immobliari, ma legati alle autorizzazioni di suolo pubblico o similari. Una parte degli incassi di entrambi le imposte andranno poi ad alimentare il fondo perequativo incaricato di attenuare gli squilibri di cassa tra i comuni più ricchi e quelli dotati di meno risorse, sul cui funzionamento (si è parlato di una gestione congiunta Stato-Anci) è ancora aperto il dibattito. Introiti rilevanti, per i comuni, dovrebbero arrivare dal contrasto dell'evasione e del sommerso: il decreto prevede infatti un robusto giro di vite per quanti non dichiareranno al fisco i redditi derivanti da locazione. Per gli affitti in nero, si parla di un aumento delle sanzioni previste che può arrivare al 400 per cento, senza possibilità di accedere alle riduzioni previste dalla legge nei casi di rinuncia all'impugnativa o collaborazione negli accertamenti. E, sempre per arricchire le entrate, è prevista per i comuni che collaboreranno alla lotta all'evasione dell'Irpef anche una quota delle somme recuperate dal Fisco.

domenica 1 agosto 2010

Berlusconi: Da noi altre 4 riforme. Bossi: No al governo tecnico


Il premier Silvio Berlusconi entra di nuovo in scena per rispondere a quanti vogliono il governo e la maggioranza in crisi. "Quattro provvedimenti - dice in una nota - contro tante chiacchiere. Nel corso di quest'ultima settimana il governo ha ulteriormente rafforzato il proprio profilo riformatore". Quindi elencai: "È stata approvata la manovra economica, che ha messo al riparo l'Italia dalle conseguenze più gravi della crisi economica e ha posto le condizioni dello sviluppo. Con la manovra sono state approvate, tra l'altro, le norme che consentono a chi vuole intraprendere di farlo senza dover ottenere le molteplici autorizzazioni preventive ora necessarie che vengono sostituite da una sola autorizzazione successiva. Il Senato ha approvato anche con il concorso di una parte dell'opposizione, una riforma fondamentale della nostra università sulla base del merito e dell'ingresso di giovani docenti e ricercatori. Il governo ha approvato poi un disegno di legge innovativo e liberale in materia cinematografica che permetterà di ridurre l'intervento esclusivo dello Stato, di incentivare l'apporto dei privati e di favorire perciò un maggiore grado di autonomia e di libertà della cultura. Il governo ha infine approvato il nuovo Codice della Strada - conclude il presidente del Consiglio - entrato in vigore già ieri, che consentirà di diminuire il numero degli incidenti e della mortalità sulle nostre strade".

Umberto Bossi intanto si schiera senza giri di parole. Spiega che per il momento non c'è il rischio di crisi e che la partita si giocherà a settembre, quando "cercheranno di dare la sfiducia a Berlusconi, non staranno fermi e cercheranno di puntare su un governo tecnico per fare leggi - aggiunge - che non interessano a tutti, ma alla sinistra". Dice ancora:"Lavoreranno sotto sotto di nascosto, i massoni, ad agosto e a settembre scopriranno le carte. Ad agosto staranno a trafficare per vedere come 'uccidere' Berlusconi". Ma Bossi gli farà da scudo: "La Lega fortunatamente ha qualcosa come 20 milioni di uomini pronti a battersi fino alla fine. Se non c'è democrazia nel Paese, la portiamo noi". E per troncare sul nascere quasiasi illazione su quale sarà la linea della Lega, Bossi pronuncia un secco no all'ipotesi di un eventuale governo tecnico; "Noi preferiamo andare a elezioni piuttosto che un governo tecnico". E ancora: "La priorità del Carroccio è come sempre il federalismo e o ce lo dà Berlusconi o non ce lo dà nessuno".

In un’intervista a SkyTg24 -, il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto ha ammonito: "Vedremo ora come si comporteranno in Parlamento questi nuovi gruppi nati da parlamentari eletti con la maggioranza. Nè il presidente del Consiglio Berlusconi nè il Pdl sono disponibili a farsi cuocere a fuoco lento facendosi condizionare di volta in volta su ogni provvedimento. Se così fosse, si dovrebbe subito tornare a votare". Ad ogni modo, Cicchitto ha invitato a considerare "aperta, anzi ancora molto aperta, la partita sui numeri" su cui potrà contare in Parlamento tanto il nuovo gruppo finiano come il Pdl. “Ho motivo di ritenere – ha spiegato - che nessuno, nemmeno noi, abbia già messo in campo tutta l'effettiva proria consistenza in modo da poter misurare i rapporti di forza".

Il finiano Benedetto della Vedova – intervistato da Sky – ha prima detto che “innanzitutto appoggiamo il Governo che c'è e che deve fare tante cose, ad esempio il federalismo". Di conseguenza "non c'è ragione per cui il Governo cada". Allo stesso tempo, però, Della Vedova ha ammonito che “la mozione Caliendo sarà il primo banco di prova per questa maggioranza che non è variata nei numeri ma che si riarticolata sul piano parlamentare”.

Da parte sua il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha detto no ad eventuali ingressi o appoggi all’esecutivo: “Il Paese – ha spiegato in un’intervista al Tg2 – avrebbe bisogno di un governo che governi, invece questo governo tira a campare. Forse la maggioranza si rappattumerà anche, ma non è questo il problema. Quando si arriva con 100 deputati di maggioranza alla contabilità sui numeri siamo alla frutta”. Casini ha assicurato: “Non sono disposto ad entrare né ad aiutare", perché rispetta "gli impegni presi con i miei elettori che mi hanno collocato all'opposizione”. Ha spiegato di aver chiesto a Berlusconi “di aprire una fase nuova. Serve all'Italia un governo di responsabilità nazionale che affronti il capitolo delle grandi riforme perché così si campicchia, e noi non possiamo permettercelo. Io non credo solo a un governo per fare una legge elettorale ma per risolvere questioni che vanno affrontate con una massiccia dose di impopolarità”. Rutelli nega che l'Api sia disponibile a soluzioni balneari: "Non cè trippa per gatti". Battuta erga omnes.