venerdì 18 giugno 2021

Regali di Biden a Mosca e Berlino, ma Merkel resta filo-cinese (e filo-russa)


 


La questione russa – Il 17 marzo 2021, Biden dava a Putin dell’assassino, con probabile riferimento al capitolo dei “diritti umani”. Per risposta, Mosca conduceva esercitazioni militari al confine ucraino. E faceva dire al vice-ministro degli esteri che “la Russia respingerebbe con forza ciò che considera una inaccettabile interferenza nella propria sfera geografica di influenza”.


Tre settimane dopo averlo definito un killer, Biden invitava Putin ad un faccia-a-faccia. Nel comunicato era ben attento a spiegare la differenza fra gli interessi nazionali (“gli Stati Uniti agiranno con fermezza in difesa dei propri interessi nazionali in risposta alle azioni della Russia, come le intrusioni informatiche e le interferenze elettorali”) e l’Ucraina (“l’impegno incrollabile degli Stati Uniti per la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Il presidente ha espresso le nostre preoccupazioni per l’improvviso rafforzamento militare russo nella Crimea occupata e ai confini dell’Ucraina e ha invitato la Russia a ridurre le tensioni”). Come si vede, non diceva affatto di voler agire con fermezza a difesa della integrità territoriale dell’Ucraina.


Concetto in quei giorni chiarito pure dal segretario di Stato, Blinken, al ministro degli esteri ucraino. Nonché dal fatto che il presidente ucraino Zelenskiy sia stato invitato sì, il prossimo mese, alla Casa Bianca, ma non al vertice Nato appena tenuto a Bruxelles. E, alla vigilia del faccia-a-faccia, da Biden stesso: “Faremo tutto il possibile per mettere l’Ucraina nella posizione di poter continuare a resistere all’aggressione fisica russa”, ma “l’Ucraina deve reprimere ulteriormente la corruzione e soddisfare altri criteri [non specificati, ndr] prima di poter essere presa in considerazione per l’adesione alla Nato”.


Provocando la sentita reazione del presidente ucraino Zelenskiy: “Tutti dovrebbero capire che siamo in guerra, che difendiamo la democrazia in Europa e difendiamo il nostro Paese, e quindi non possono semplicemente parlarci con frasi sulle riforme”. Certo, Biden lo avrebbe rassicurato così: “non farò degli interessi dell’Ucraina un oggetto di scambio” con Putin. Ma a Kiev non basta, vuole un impegno ad essere accolta nella Nato.


A Zelenskiy converrebbe rammentare l’esempio degli interessi finlandesi: assai ben protetti, e per diversi decenni, dalla neutralità. Invero, non si comprende molto bene perché l’Ucraina non dovrebbe accettare la finlandizzazione. Certo, v’è la sacralità dei confini (“diritto internazionale”); ma è stata già violata con la secessione del Kossovo. Certo, essa avverrebbe al prezzo di cessioni territoriali che l’Ucraina naturalmente rifiuta; ma nessuna potenza occidentale ha mai pensato di andare in guerra per Viipuri-Vyborg.


Invero, a prevalere sembra essere l’interesse di tutti gli attori a tenere aperta la questione, come poco costosa forma di pressione reciproca (vedi i consueti richiami di prammatica nel comunicato finale del vertice Nato). Da attivarsi di tanto in tanto ed alla bisogna. Come testé ha dimostrato Putin, appunto.


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À côté, la questione dei polacchi e dei Paesi baltici, apparentemente terrorizzati dal rischio che Mosca faccia loro ciò che ha fatto all’Ucraina. Profittando del vertice Nato di lunedì 14, Biden ha assicurato in pubblico che, per lui, l’impegno ad intraprendere, in caso di “attacco armato” contro un membro dell’Alleanza, l’azione che “giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata” (art. 5 Nato) è un “obbligo sacro”. Oltre a ciò, le lunghe conclusioni hanno pure esteso il concetto di “attacco militare” agli attacchi informatici, almeno in potenza; e questo può interessare ai Paesi baltici (oltre che allo spazio, ma questo li interessa assai di meno). E tanto è bastato.


Interessante che di eguale inclusione non abbia goduto l’arma più recentemente usata contro i Paesi baltici: l’immigrazione clandestina. Iracheni e siriani volano a Misk e vengono accompagnati al confine lituano, spingendo Vilnius a gridare alla “forma di attacco ibrido contro l’Europa”. Può darsi abbia ragione ma, se l’avesse, allora pure la Turchia faceva e fa guerra ibrida all’Europa e, in tal caso, la Nato dovrebbe dichiarare guerra alla Turchia. Il che non è dato.


Invero, la minaccia militare ai Paesi baltici è chiaramente sopravvalutata. Quando prese la Crimea, Putin intendeva assicurarsi la propria base navale principale sul Mar Nero, dunque sul Mediterraneo … non sul Baltico; il membro Nato più direttamente minacciato è la Turchia … non i Baltici. Del pari, la ribellione del Donbass serve a Putin per contrastare l’accesso dell’Ucraina nella Nato … ma i Baltici nella Nato ci sono già. Insomma, la questione dei polacchi e dei Paesi baltici è solo un side-show e, giustamente, come tale è stata trattata.


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Della questione dei “diritti umani” non sapremmo dire, salvo il gustoso siparietto messo su dai due quando si sono visti a Ginevra: con Biden che diceva “Navalny” e Putin che rispondeva “Guantanamo”. L’avvertimento del primo (se Navalny morisse in carcere “le conseguenze sarebbero devastanti per la Russia”) pare aver fissato un ostacolo molto basso, facile per Putin da accettare.


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V’è poi la questione dei cyber-attacchi. Categoria cui appartiene anzitutto l’intromissione nei sistemi informatici pubblici e privati, con lo scopo di rubare dati o infettare le reti. Per esteso, al capitolo cyber-attacchi ci sia consentito annoverare le annose polemiche sull’intromissione russa nelle campagne elettorali occidentali. Una parte è stata ricondotta ad organizzazioni dello Stato russo, un’altra parte ad imprecisati cinesi. Di un’altra parte ancora non si sa bene, così Ian Bremmer: “incertezze sulla provenienza di molti degli attacchi informatici. L’FBI è risalita all’origine di alcuni, ma nella maggior parte dei casi ci sono forti indizi, un tracciato della provenienza ma non prove certe”. Oppure no, trattandosi di cose di spie è impossibile sapere.


Le due parti hanno convenuto un comitato di contatto, che discuterà pure un qualche accordo di estradizione reciproca. Più importante, Biden ha fissato una lista di infrastrutture che non devono essere toccate: pure qui, un ostacolo molto basso, facile per Putin da accettare.


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Tutte queste concessioni, in cambio di cosa? Di una comune azione di contenimento della Cina, dicono tutti. A Putin si chiede di mettersi con gli Stati Uniti contro la Cina o, quanto meno, di assumere una posizione neutrale. Accetterà? Un feroce documento del molto conservatore Center for Security Policy dice di no: “The deal is doomed to failure”. Quanto a noi, non sapremmo dire. Immaginiamo dipenderà dalla disponibilità americana alla neutralizzazione dell’Ucraina, a riconoscere la sfera geografica di influenza che i russi rivendicano. Disponibilità che ci pare tutto meno che certa.


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La questione tedesca – C’è chi dice che gli Stati Uniti usino la minaccia russa per tenere insieme l’Alleanza. Ma ciò è smentito dal comportamento del principale alleato europeo, la Germania, la quale, proprio negli anni seguiti allo scoppio della crisi ucraina, ha portato quasi a termine il raddoppio di un notevole gasdotto, il North Stream 2 che, passando sotto il Mar Baltico taglia fuori l’Ucraina dal grande gioco del gas. Concetto chiarissimo al segretario di Stato Antony Blinken: “È un progetto geopolitico russo, destinato a dividere l’Europa e indebolire la sicurezza energetica europea”. Parimenti, la Germania è lontanissima dal rispettare i propri impegni in materia di spese militari e non mostra alcuna intenzione di correggersi. Nel 2018, questi due fatti avevano innescato la durissima presa di posizione dell’ex presidente Trump: “Anche l’America può andare per la propria strada”, aveva detto al vertice Nato. Biden, al contrario, ha rinunciato alle sanzioni contro la società operativa del gasdotto e, quanto alle spese militari, ha sostenuto che gli alleati in ritardo siano “sulla buona strada”.


Si aggiunga la tregua commerciale, con la sospensione dei dazi incrociati seguiti alla disputa sui sussidi a Boing ed Airbus e di altri dazi su alluminio e acciaio. Ancorché restino differenze, anche profonde, con riguardo alle nuove tasse europee (carbon-tax alle frontiere e digital tax) che Bruxelles immagina di voler imporre.


Su tutte queste materie, e come riguardo l’Ucraina, naturalmente Washington non ha ritirato le proprie richieste, anzi le mantiene. Ma tratta. E questa è, oggettivamente, una concessione di enorme portata nei confronti della Germania; nonché di Putin, oggettivamente alleato di quest’ultima.


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La questione Merkel – In cambio di che? Pure qui, di una comune azione di contenimento della Cina, dicono tutti. Un primo passo si è avuto a maggio, con la sospensione dell’accordo di principio Ue-Cina in materia di investimenti, firmato il precedente dicembre pur con la forte opposizione della amministrazione americana entrante. All’epoca, le posizioni di Biden e Merkel erano frontalmente opposte.


Oggi, dai giornali tedeschi emerge una sfumatura diversa. L’obiezione non riguarderebbe più la Cina, ma la Russia: pure “gli Usa importano energia dalla Russia, più precisamente petrolio … e più petrolio di quello che gli Stati Uniti importano dall’Arabia Saudita”, perché la Germania non dovrebbe importare gas? E poi, “la cancelliera ha richiamato l’attenzione su un altro problema: la sempre più stretta cooperazione militare e politica tra Russia e Cina” cioè, mica vorrete contenerli tutte e due insieme?


Fiati, voci dal sen fuggite. Niente che possa indicare una strategia matura. Infatti il comunicato finale del vertice Nato contiene espressioni di messa in guardia ma, sottolinea Die Welt: “Biden è stato notevolmente riluttante a criticare Pechino. In questa giornata, egli ha fatto di tutto per non provocare la Merkel. Perché la cancelliera punta soprattutto sul dialogo con la Cina … bisogna ‘non negare’ i problemi con la Cina, ma anche ‘non sopravvalutarli’, ‘dobbiamo trovare il giusto equilibrio’”. Merkel resta tanto filo-cinese quanto è filo-russa.


Ma la vecchia è in uscita, a settembre sarà finalmente consegnata alla storia. Un secondo articolo di Die Welt chiosa: “il 15 luglio Biden riceverà Merkel per l’ultima visita alla Casa Bianca. Washington può giustamente sperare che il successore della Merkel consentirà una politica debitamente critica nei confronti della Cina”. E, alla luce delle molte concessioni fatte da Biden, pare essere una previsione abbastanza attendibile.


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La questione Macron – Infine, Macron. Il poveretto si è visto crollare il mondo addosso. Pochi giorni fa “sottolineava, con fare ironico, che la Cina non è, a priori, nel raggio di azione di un’alleanza chiamata a difendere il territorio europeo”, ma pure al vertice Nato insisteva sul principio della autonomia strategica dell’Europa. Evidentemente il vaso era colmo e si è meritato una replica durissima dell’olandese Rutte.


In effetti, la minaccia russa non serve tanto agli americani per tenere insieme l’Alleanza, quanto alla Ue per tenere in piedi il baraccone di una difesa europea, che non esiste e non esisterà mai. Non ultimo, perché gli americani non la vogliono.


Le ricadute, sul resto della mitica costruzione europea, di questo ennesimo fallimento saranno indiretti. Ma, certo, non si potrà più pretendere che l’Europa stia andando avanti. Non si potrà più blaterare che la moneta unica prefigura una mitica federazione, che non esiste e non esisterà mai. È buon tempo che pure Macron, oltre a Merkel, venga consegnato alla storia. Di entrambi, essa farà polpette. I@C


di Musso


I@C PS “Suppongo che in generale non abbi  amo ottenuto nulla. Abbiamo dato un palcoscenico molto grande alla Russia e non abbiamo ottenuto nulla. Abbiamo rinunciato a qualcosa che era incredibilmente prezioso. Ho fermato il gasdotto Nord Stream-2, e quel gasdotto era fermato. E' stato ripreso, e non è stato ottenuto nulla per questo. E' stato solo un altro giorno"


ha detto Trump, parlando alla trasmissione di Fox News del conduttore Sean Hannity.



giovedì 17 giugno 2021

Raisi verso la presidenza in Iran. La rosa dei rivali si stringe


 Sono quattro i candidati rimasti in lizza per le imminenti elezioni nel Paese. Il religioso ultraconservatore è dato per favorito già al primo turno. l voto arriva mentre la Repubblica islamica è impegnata a rivitalizzare l’accordo sul nucleare.


AGI - Alla vigilia delle presidenziali iraniane, il campo dei candidati - già limitato dal vaglio del Consiglio dei Guardiani, controllato dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei - si restringe ulteriormente: dopo tre ritiri dell’ultimo minuto, sono quattro i candidati rimasti in lizza, con il religioso ultraconservatore Ebrahim Raisi dato per favorito già al primo turno.


L’unico vero esponente riformista ammesso alla consultazione, Mohsen Mehralizadeh, è stato il primo a ritirarsi, seguito da due ultraconservatori, Alireza Zakani e Said Jalili, entrambi schieratisi a favore di Raisi. Voci sull’uscita di scena anche di Amirhossei Qazizadeh Hashemi, sono state smentite nella tarda serata dallo staff del parlamentare conservatore.


Con lui e Raisi rimangono in gara Mohsen Rezai, ex comandante dei Pasdaran, al suo quarto tentativo di vincere la poltrona di capo del governo, e l’ex governatore della Banca centrale, Abdolnaser Hemmati, appoggiato da parte di riformisti e moderati, fortemente divisi al loro interno. 


Se il parterre rimane questo, i sondaggi dell’istituto statale Ispa attribuiscono a Raisi un 64% dei voti. È suo il volto più diffuso per le vie di Teheran sotto lo slogan “Un governo del popolo, un Iran forte”, mentre sono praticamente assenti i manifesti elettorali degli altri contendenti.


La figura di Raisi

“Raisi è l’uomo giusto, combatte ingiustizie e corruzione ed è un rivoluzionario fedele”, dice Majid Hamid, un reduce di guerra con pensione di disabilità, presente in piazza Haft Tir a uno dei raduni elettorali del favorito alle urne.


“Con lui avremo buoni rapporti con l’Europa, ma da una posizione ferma che tuteli i nostri interessi nazionali, mentre se gli Usa non cambiano atteggiamento con loro non avremo nessuna relazione”, aggiunge l’uomo, venuto in piazza con la moglie completamente velata e seduta nella zona dell’evento riservata alle donne.


“Il governo attuale pensa che l’economia possa migliorare solo con buoni rapporti con l’Occidente, ma invece potremmo puntare sui buoni rapporti coi nostri vicini e sul rafforzamento della nostra produzione interna”, spiega Ali, 25enne studente di economia all’Università di Teheran, venuto ad assistere a una conferenza stampa di Hemmati, ma già deciso a votare per Raisi. 


Il contesto delle elezioni

Il voto arriva mentre la Repubblica islamica è impegnata a rivitalizzare l’accordo sul nucleare, nei negoziati indiretti con gli Usa a Vienna, e da cui auspica arrivi la revoca delle sanzioni ripristinate da Donald Trump e che stanno soffocando un’economia duramente colpita anche dalla crisi del Covid-19.


La competizione, ritenuta da molti osservatori né libera né aperta, potrebbe registrare un record di astensionismo, sullo sfondo di un diffuso malcontento per la grave crisi economica e la disillusione rispetto ai reali poteri del presidente, in un sistema politico che conferisce alla Guida Suprema l’ultima parola sulle decisioni chiave della vita del Paese.


Riformatori e moderati imputano proprio allo scontro con il ‘deep state’, legato a Khamenei, e all’opposizione del Parlamento, in mano ai conservatori, l’incapacità del governo del moderato Hassan Rohani di realizzare le promesse di benessere e aperture economiche fatte all’inizio del primo mandato, già otto anni fa. 


Gli ultimi sondaggi

Sulla scia di una vasta campagna per boicottare il voto, portata avanti da oppositori e dissidenti, e dei fiori di contagio da Covid, l’ultimo sondaggio dell’istituto statale Ispa prevede un’affluenza del 42%, un dato che i media conservatori hanno definito un “balzo” rispetto al 38% registrato la settimana scorsa, ma che rimane ben al di sotto di quello delle ultime presidenziali del 2017, in cui Rohani conquistò un secondo mandato con un’affluenza del 70%.


L’ayatollah Khamenei, in un discorso televisivo ieri sera è tornato a fare appello agli iraniani perché votino “in massa”, per resistere ai nemici. L’affluenza è il dato su cui sono puntati i riflettori, in quello che è un nuovo test di legittimità per il sistema politico, dopo tre anni che hanno messo a dura prova i rapporti tra la società e il potere non solo per via della crisi ma anche per la dura repressione delle proteste del 2019 contro il caro benzina e l’abbattimento del volo di linea ucraino sui cieli di Teheran, che ha ucciso 176 persone per lo più iraniani.

Attraverso i loro mercenari nel Paese, ha tuonato Khamenei, “le potenze sataniche" cercano di far boicottare le elezioni e così di "creare una spaccatura tra il popolo e il sistema". Una spaccatura, però, che appare già realtà. “Abbiamo raggiunto un accordo col regime”, dice sarcastico Ali, proprietario di un caffè frequentato da scrittori e artisti nella zona Nord della capitale e che chiede l’anonimato, “loro lassù fanno quello che vogliono e noi quaggiù facciamo lo stesso.

https://www.agi.it/estero/news/2021-06-17/raisi-verso-presidenza-ira-rosa-rivali-si-stringe-12949120/




sabato 12 giugno 2021

Il piano infrastrutturale globale del G7 per rispondere all'influenza della Cina

 


I leader, riuniti a Carbis Bay ,hanno adottato un piano che punta ad aiutare i Paesi in via di sviluppo. Un programma che vuole contrastare l'influenza della Nuova Via della Seta promossa da Pechino
Il piano infrastrutturale globale G7 cina
Riunione dei leader mondiali al G7 in Cornovaglia
AGI - I leader del G7 riuniti a Carbis Bay hanno adottato un piano che punta ad aiutare a costruire infrastrutture nei Paesi in via di sviluppo, in risposta alla Nuova Via della Seta promossa dalla Cina.
Il Build Back Better World (B3W), ispirato dall'amministrazione Usa di Joe Biden, offre una partnership "guidata da valori, di alto livello e trasparente". Un modo per rispondere alla "competizione strategica con la Cina e impegnarsi con azioni concrete per affrontare l'estrema necessita' d'infrastrutture nei Paesi a basso e medio reddito", ha sottolineato la Casa Bianca.
L'obiettivo del piano è aiutare a coprire il fabbisogno d'infrastrutture nei Paesi in via di Sviluppo, per un valore di oltre 40 mila miliardi di dollari, esacerbato dalla pandemia di Covid.
Attraverso B3W, i Paesi del G7 e altri partner si coordineranno nel "mobilitare capitali del settore privato in quattro aree d'interesse - clima, salute, tecnologia digitale e uguaglianza di genere - con investimenti provenienti dalle rispettive istituzioni finanziarie per lo sviluppo", ha spiegato la Casa Bianca.
Il progetto riguarda tutto il mondo, "dall'America Latina ai Caraibi all'Africa fino all'Indo-Pacifico", in nome di una "visione unificata per uno sviluppo globale delle infrastrutture". L'auspicio di Washington è che il progetto catalizzi "collettivamente centinaia di miliardi di dollari d'investimenti infrastrutturali nei prossimi anni".
"Non è intenzione degli Stati Uniti costringere altri Paesi a scegliere tra le due maggiori economie del mondo (Usa e Cina, ndr) ma piuttosto mostrare agli altri che le democrazie sono un modello migliore delle autocrazie". Lo ha detto un funzionario della Casa Bianca, spiegando che gli Usa stanno cercando di offrire "un'alternativa positiva che rifletta i nostri valori, i nostri standard e il nostro modo di fare  affari".
"Mentre ci uniamo in questa partnership, i nostri partner del G7 hanno concordato che il nostro vero scopo qui è dimostrare che le democrazie e le società aperte possono unirsi e offrire una scelta positiva per affrontare alcune delle piu' grandi sfide del nostro tempo, non solo per il nostro persone, ma per le persone di tutto il mondo", conclude.


https://www.agi.it/estero/news/2021-06-12/piano-infrastrutturale-globale-g7-cina-12891384/


G7 al via. Draghi: non dimenticare la coesione sociale, è un dovere morale



Johnson: 'Una enorme chance per uscire dalla miseria della pandemia'

E' iniziato ufficialmente in Cornovaglia, all'estremo sud-ovest dell'Inghilterra, il G7 2021 a presidenza britannica: primo vertice in presenza dallo scoppio della pandemia di Covid. Il premier Boris Johnson ha dato il via ai tre giorni di lavori accogliendo nell'esclusivo resort (blindato) di Carbis Bay i leader ospiti: Joe Biden per gli Usa, Mario Draghi per l'Italia, Angela Merkel per la Germania, Emmanuel Macron per la Francia, Yoshihide Suga per il Giappone, Justin Trudeau per il Canada, nonché Charles Michel e Ursula von der Leyen per l'Ue.

La prima sessione - sulla ricostruzione post Covid - viene introdotta da Draghi.


"Questo è un buon periodo per l'economia mondiale. La ripresa ha avuto un forte picco e le politiche attuate durante la fase più acuta della pandemia si sono mostrate corrette". Lo ha detto il premier Mario Draghi nel corso del suo intervento al panel sulla ripresa economica, al G7, a quanto riferiscono fonti di Palazzo Chigi. "Ci siamo concentrati su misure di sostegno rivolte alle imprese e alle persone. Ora ci stiamo orientando sempre di più sulla spesa per gli investimenti e meno su forme di sussidio", ha aggiunto.

"Ci sono ottimi motivi per avere una politica di bilancio espansiva". Questo - ha aggiunto Draghi - serve a rafforzare la crescita e proteggere i lavoratori durante le transizioni che sta attraversando l'economia.

La crescita economica è oggi il modo migliore per assicurare la sostenibilità dei conti pubblici. Draghi ha poi aggiunto che "è necessario mantenere un quadro di politica di bilancio prudente nel lungo periodo, per rassicurare gli investitori ed evitare politiche restrittive da parte delle banche centrali". Bisogna gestire questa fase di ripresa in maniera diversa dalle crisi precedenti: "In passato, in occasione delle altre crisi, nei nostri Paesi ci siamo dimenticati della coesione sociale". Draghi ha sottolineato il "dovere morale" di agire diversamente. Il premier ha enfatizzato l'importanza delle politiche attive del lavoro per aiutare i più deboli, soprattutto le donne e i giovani.


Un'occasione "enorme" per accelerare l'uscita dei rispettivi Paesi e del mondo "dalla miseria della pandemia": così Boris Johnson ha definito oggi il vertice G7 iniziato in Cornovaglia aprendone i lavori nel resort di Carbis Bay. "Dobbiamo trarre lezione dalla pandemia e assicurare che alcuni degli errori che abbiamo senza dubbio commesso durante gli ultimi 18 mesi non si ripetano", ha detto il premier britannico. Quanto al futuro, ha aggiunto, bisogna puntare a una ripresa in cui ci sia più equità, per "ricostruire in meglio" lo scenario economico globale. "Abbiamo un'enorme opportunità per farlo in questo G7", ha insistito.


G7 AL VIA, OBIETTIVO RICOSTRUZIONE POST COVID


"La prima sessione del G7 riflette la nostra priorità comune: assicurare una ripresa per tutti. Garantiremo che quanti sono stati più colpiti dalla pandemia non siano lasciati indietro". Così la presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, su Twitter. "L'Ue aumenterà il sostegno alla Globlal partnership per l'istruzione a 700 milioni di euro nel 2021-2027 per aiutare la trasformazione dei sistemi dell'istruzione per le ragazze e le donne", aggiunge.


"Ieri ho annunciato che gli Stati Uniti doneranno mezzo miliardo di vaccini Pfizer per aiutare i Paesi che ne hanno bisogno. In questo momento i nostri valori ci dicono che dobbiamo fare tutto il possibile per vaccinare il mondo contro il Covid 19". Lo twitta il presidente Usa Joe Biden. 

"In termini di infrastrutture il G7 appoggerà standard elevati, trasparenti, rispettosi dell'ambiente e un meccanismo per gli investimenti nelle infrastrutture fisiche, digitali e sanitarie dei Paesi a basso e medio reddito. Sarà un'alternativa a quello che altri Paesi, inclusa la Cina, stanno offrendo". Lo afferma un funzionario della Casa Bianca. "Il G7 continuerà a fare sforzi per accelerare la ripresa economica globale che creerà benefici di lungo termine per le esportazioni e il mercato del lavoro americani", aggiunge la Casa Bianca.


"Le società democratiche sono le più attrezzate per sconfiggere la pandemia da Covid 19 e riportare la prosperità economica. Insieme ai leader del G7 ci concentriamo su una crescita sostenibile e resiliente che funzioni per tutti a livello globale. Questa è l'unica strada da percorrere e insieme siamo più forti". Così il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, su Twitter.


Un confronto "sulle esperienze dei rispettivi Paesi" di fronte all'emergenza Covid è stato oggi fra i temi di un faccia a faccia bilaterale di mezz'ora fra Mario Draghi e Boris Johnson che ha preceduto il vertice G7 di Carbis Bay, in Cornovaglia. Il premier italiano e quello britannico - riferisce Downing Street - hanno poi discusso "dell'importanza" di una ricostruzione post pandemia fondata su una politica "più verde" e della necessità di rispettare l'impegno globale di mettere sul piatto 100 miliardi di dollari all'anno per aiutare le economie dei Paesi meno ricchi a far fronte alla battaglia contro i cambiamenti climatici.

Un programma intenso, spalmato su tre giorni di lavoro. Debutta oggi alla 14 locali, le 15 in Italia, il vertice dei capi di Stato e di governo del G7 a presidenza britannica di Carbis Bay, in Cornovaglia, con la classica cerimonia di benvenuto agli ospiti da parte del padrone di casa, il primo ministro Boris Johnson, seguita dalla non meno tradizionale foto di rito. Quindi il via formale al summit (a cui partecipano Usa, Regno Unito, Germania, Francia Italia, Canada, Giappone e Ue), previsto alla 14.45 con una sessione dedicata alla ricostruzione post Covid delle economie e dei sistemi sociali la cui introduzione è affidata al presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi. E quindi da una cena di lavoro.


Domani giornata piena con tre sessioni a partire dalle 10 locali (le 11 in Italia) e incentrate sempre sulla ricostruzione del dopo Covid ma dal punto di vista della flessibilità, della politica estera e della sanità, cui seguirà una cena formale. E infine domenica mattina doppia sessione sui temi della società aperte e del libero commercio e poi (di nuovo introdotta da Draghi) del clima e di una nuova politica verde. Le conferenze stampa finali sono in agenda nel primo pomeriggio della stessa giornata di domenica.


Le ultime due sessioni vedranno anche la presenza dei leader ospiti di Australia, Corea del Sud, India e Sudafrica, nonché del segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ammessi ai lavori da domani pomeriggio. Intanto si sono completati stamattina gli arrivi dei leader europei: nell'ordine la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron, tutti accompagnati dai rispettivi consorti, nonché Mario Draghi. Ieri sera erano sbarcati in Cornovaglia il premier canadese Justin Trudeau e quello giapponese Yoshihide Suga. Mentre il presidente americano Joe Biden era arrivato già mercoledì sera.


#Macroeconomia #Governonazionale

#MarioDraghi #G7 #UnioneEuropea #politicaestera #politicainternazionale 


https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/06/11/g7-al-via-per-draghi-bilaterale-con-biden-a-margine-del-summit_56ed6a2f-506a-4e48-98ac-a569edc0e8ea.html

mercoledì 9 giugno 2021

Tunisia, il jihadismo ha perso appeal

 Un report di International crisis group evidenzia come la violenza jihadista, aumentata tra il 2010 e il 2015, stia ora vivendo un accentuato declino. Molte le ragioni. Tra cui il crollo finanziario dell’universo jihadista e la presenza del partito islamista Ennahdha al governo. Diversi dei foreign fighters si considerano vittime della propaganda jihadista. Il pericolo ora è che il governo mantenga misure di antiterrorismo repressive che minino la coesione sociale

Molto spesso le cronache o le analisi un po’ pigre raccontano che in Tunisia sopravvive l’islam radicale contiguo al terrorismo. Sopravviverebbe in quel brodo di coltura nutrito fra moschee estremiste, imam incendiari e internet.

A smantellare questa immagine ci pensa un nuovo rapporto del think tank International Crisis Group dal titolo Jihadismo in Tunisia: evitare l’ondata di violenza, nel quale si ricorda come «la violenza jihadista, aumentata tra il 2010 e il 2015, stia ora vivendo – contro ogni previsione – un accentuato declino».

E che proprio per questo, il fatto che il governo continui a mantenere misure antiterrorismo repressive e non sufficientemente mirate rischia di «minare la coesione sociale e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni».

Per evitare questo rischio, secondo l’organizzazione no profit, «le autorità tunisine dovrebbero attuare riforme nel settore della giustizia e della sicurezza atte a evitare nuove ondate di violenza». In particolare, l’esecutivo «dovrebbe varare una nuova legge sullo stato di emergenza, modificare la legge antiterrorismo del 2015 e il codice di procedura penale, migliorare le condizioni di detenzione e garantire il coordinamento degli sforzi per prevenire e sopprimere il terrorismo».

Ma il punto di partenza è che la violenza jihadista è in calo dal 2016, in un paese dove gli islamisti del movimento Ennahdha partecipano da 10 anni al governo tunisino, mentre i movimenti jihadisti e salafiti vivono una stagione di difficoltà. Ciò potrebbe confermare che forse non avevano torto alcuni tra i sostenitori della Primavera araba del 2011 che volevano vedere la partecipazione dell’islam politico nella sfera pubblica.

Per quanto riguarda i dati, «sebbene i combattenti tunisini siano presenti in gruppi jihadisti all’estero, il loro numero sembra essere sopravvalutato, così come la minaccia del loro ritorno nel paese. Tra i giovani, che fino a qualche anno fa sembravano vedere nel jihadismo una soluzione praticabile alle loro difficoltà, il movimento salafita-jihadista sembra aver perso il suo fascino».

La svolta dell’attentato a Ben Guerdane

In costante crescita dalla rivolta del 2010-2011, la violenza jihadista in Tunisia ha raggiunto il picco nel 2015 con tre spettacolari attacchi rivendicati dal gruppo Stato islamico (Is) e, nel marzo 2016, con il tentativo di prendere il controllo della città di confine di Ben Guerdane da parte di un commando della stessa organizzazione.

Il fallimento di questo attacco ha segnato un calo notevole della violenza nel paese. Da allora, 16 persone sono morte, vittime del jihadismo, contro le 214 tra il 2011 e il 2016. Da marzo 2016 a marzo 2021, jihadisti o sospetti jihadisti hanno effettuato 5 operazioni in aree urbane, tutte limitrofi a Tunisi e a città della costa orientale. 

Is ne ha rivendicati 3. Come 3 sono le persone – appartenenti alle forze dell’ordine e della Guardia nazionale – rimaste uccise in quegli attacchi. Nelle zone rurali, nello stesso periodo, le violenze sono avvenute esclusivamente nelle aree montuose e forestali al confine tra Tunisia e Algeria, e hanno portato alla morte di 11 soldati e guardie nazionali, oltre a due pastori.

Ma questi piccoli gruppi terroristi avrebbero perso i due terzi delle loro truppe dal 2016. Sono passati da 250 combattenti a circa 60. Le forze armate hanno eliminato molti dei loro leader che si sono succeduti ai vertici delle organizzazioni. L’ ultimo comunicato stampa “jihadista” risale al 9 luglio 2018. 

Giudici, membri della polizia e analisti hanno raccontato in questi anni le difficoltà finanziarie e logistiche, soprattutto in termini di approvvigionamento, dei movimenti terroristici. Ed il furto di bestiame o di riserve di cibo da fattorie isolate ha spesso alienato loro il sostegno delle popolazioni locali.

Sconfitte jihadiste 

Per Crisis Group, e non solo per loro, questa diminuzione della violenza nel paese è in gran parte legata anche alle battute d’arresto militari delle maggiori organizzazioni jihadiste in Medioriente e in Libia, paese da cui sono stati organizzati gli attacchi mortali contro la Tunisia nel 2015-2016.

L’Is è stato cacciato da Derna nel giugno 2015 e da Sirte nel dicembre 2016. Anche se proprio lunedì 7 giugno il gruppo Stato islamico ha rivendicato l’esplosione di un’autobomba avvenuta il giorno prima nella città libica di Sebha, situata 750 km a sud della capitale Tripoli, e che ha provocato la morte di 2 persone e 5 feriti.

Comunque, secondo Crisis Group, dal 2016 al 2021 il numero dei combattenti dell’Is in Libia è sceso da 1.400 a poche centinaia. Il 19 febbraio 2016, gli Stati Uniti hanno bombardato un campo di addestramento jihadista a Sabratah, a circa 100 chilometri dal confine tunisino. Questo intervento aereo ha scatenato la replica jihadista con l’attentato a Ben Guerdane sul suolo tunisino. Ma la fretta con cui è stato realizzato spiega, in parte, il suo fallimento. 

Fantasmi tunisini, una minaccia sopravvalutata

Secondo Crisis Group, è stato spesso sopravvalutato il numero di volontari tunisini nei gruppi jihadisti in Medioriente e in Libia tra il 2013 e il 2016. Diversi analisti e giornalisti affermano che il loro numero è di circa 10mila, mentre il governo segnala 2.929 combattenti. Una stima probabilmente più vicina alla realtà, secondo il report del think tank. Più di due terzi di questi 2.929 combattenti sembrano essere stati uccisi o imprigionati all’estero.

Il possibile rientro dei jihadisti tunisini, i cosiddetti foreign fighters, solleva, poi, preoccupazioni esagerate, perché in parte basate sul precedente del ritorno di volontari algerini dall’Afghanistan, negli anni ’80. A differenza dei loro predecessori, accolti come eroi, gli 800 jihadisti rientrati in Tunisia tra il 2011 e il 2016 sono stati vissuti come combattenti sconfitti militarmente.

Per la maggior parte di loro, si è trattata di un’esperienza fallimentare. Alcuni sarebbero stati rifiutati da gruppi islamisti presenti in Medioriente. Un giudice istruttore li ha soprannominati «i jihadisti falliti». Altri avrebbero occupato posizioni subordinate all’interno di questi gruppi, con compiti logistici (finanziamenti, cure, trasporti).

Inoltre, mentre i volontari algerini si sono innestati, al loro ritorno in patria, in un movimento jihadista di massa, non esiste un’esperienza simile tra i tunisini. Anzi. Molti di loro, di ritorno dal Medioriente, sono stati criminalizzati e stigmatizzati. La giustizia tunisina ha condannato alcuni degli 800 rimpatriati a pene detentive comprese tra i 3 e gli 8 anni.

Dal loro ritorno, mancano prove per stabilire il loro possibile coinvolgimento nell’organizzazione di atti terroristici. Molti si dicono delusi dal loro impegno jihadista. Addirittura traumatizzati. Si considerano vittime della propaganda. L’Is, per alcuni di loro, è una creazione artificiale che nulla ha a che vedere con l’islam autentico.

Sarebbero pochissimi i jihadisti esperti attualmente detenuti nelle carceri tunisine. Delle circa 2.200 persone detenute ai sensi della legge antiterrorismo del 2015, sarebbero solo una decina i combattenti stranieri tunisini considerati molto pericolosi dai servizi di intelligence di diversi paesi.

Ora lo sguardo è verso il Sahel

I membri di al-Qaida e Is si stanno spostando verso aree in cui è debole il controllo. In particolare nel Sahel. È ipotizzabile, quindi, che il paese nordafricano resti immune per un po’ dal ritorno dei “veri” jihadisti. Anche perché la Tunisia rimane un territorio dove organizzarsi è complicato. Territorio che, peraltro, resta strategicamente secondario come obiettivo.

Secondo diversi esperti, sarebbero circa 200 questi “veri” jihadisti tunisini che starebbero ancora combattendo in Medioriente, e un centinaio nel Sahel. Si dice che quasi 600 facciano ancora parte di gruppi jihadisti in Libia, soprattutto nel sud.

È probabile, quindi, che il costante aumento del loro numero nel Sahel rafforzi i legami jihadisti tunisini-maliani che esistono da più di dieci anni. Per il momento, tuttavia, secondo Crisis group questo rafforzamento non si vede ancora.

Il jihadismo è passato di moda tra i giovani 

L’impegno salafita-jihadista ha in gran parte perso il suo fascino tra i giovani, che erano ricettivi a questo richiamo meno di 5 anni fa. Nelle università, prima di tutto, sembra essere scomparso il gruppo Ansar al-Shari’a, il principale collettivo salafita-jihadista tunisino, costituitosi negli anni 2012-2013. 

Sono cessate le proteste coordinate da questo gruppo, come i movimenti degli studenti che volevano conservare il niqab durante gli esami (il niqab è stato inoltre vietato nei locali dell’università).

Dal 2016 l’impegno all’interno del movimento salafita-jihadista è diventato estremamente rischioso in Tunisia, a differenza del periodo dall’inizio del 2011 al 2013. E ha contribuito a indebolirne il potere di attrazione. Questo tipo di attivismo è stato infatti criminalizzato da quando (agosto 2013) Ansar al-Shari’a è stata inserita nell’elenco delle organizzazioni terroristiche.

Tra le poche organizzazioni politiche legali che si battono apertamente, ma pacificamente, per il ristabilimento di un califfato governato dalla rigorosa applicazione della legge islamica è il Partito della Liberazione (Hizb ut-Tahrir). Proveniente dal movimento dei Fratelli Musulmani, questa formazione politica è poco incline al compromesso. Anche nel 2021 continua a tenere incontri pubblici e si dice che sia stata rimpolpata dall’arrivo degli ex sostenitori del gruppo salafita-jihadista Ansar al-Shari’a. 

Secondo Crisis Group, altri militanti stanno affluendo nella corrente salafita-jihadista “hazimista”. Una corrente già molto popolare tra i combattenti tunisini all’interno dell’Is in Siria nel 2014. Potrebbe rappresentare una minaccia significativa nel medio termine, se riuscirà ad aumentare i suoi ranghi. Ma tale scenario rimane improbabile nel contesto attuale, secondo il think tank.

Questi tipi di “attivismi” sono tuttavia molto marginali nei giovani. La maggior parte di loro è profondamente delusa sia dalla rivoluzione del 2010-2011 sia dal jihadismo. Anche la religiosità è in netto declino in questo segmento della popolazione. Così, «anche il jihadismo non è più un sogno», così come era vissuto da molti giovani tunisini qualche anno fa. Lo vivevano come «l’ultima ideologia veramente anti-sistema».

 Il crollo finanziario, fonte del declino jihadista

Le difficoltà finanziarie delle organizzazioni jihadiste hanno contribuito a diminuire il loro appeal. Alcuni esperti sostengono che l’attrazione dei giovani tunisini verso il jihad in Medioriente e in Libia, soprattutto tra il 2014 e il 2016, sia stata guidata da considerazioni economiche. 

Al-Qaida e Is avevano offerto l’opportunità di lasciare il paese per guadagnare denaro, in un contesto in cui il dinamismo economico dell’Europa era diminuito ed erano aumentati i rischi di attraversamento irregolare del Mediterraneo. Nel 2021, agli occhi delle frange più vulnerabili della gioventù, i gruppi jihadisti offrono poche prospettive di arricchimento.

Un’alternativa che sta attirando sempre più frange giovanili è quella dell’organizzarsi in bande criminali, per «prendere soldi dai ricchi con ogni mezzo» e dedicarsi a traffici illeciti, come la droga.

https://www.nigrizia.it/notizia/tunisia-il-jihadismo-ha-perso-appeal




lunedì 3 maggio 2021

Perché sono contrtario al #ddlzan


 Buonasera a tutti 

Volevo fare un appunto su ciò che ha detto #fedez riguardo al #ddlzan e a ciò che anno detto alcuni esponenti leghisti in passato riguardo all'omosessualità. 

È del tutto evidente che non si può che condannare tali affermazioni e che ciò non e’ il pensiero di molti di noi elettori di centrodestra. Il motivo per cui molti noi sono contrari a questo ddl è che ci sono alcune parti che se applicate così come scritte sarebbero un pericolo alla liberta’ di espressione. 

Voglio spiegare il perché di questa mia presa di posizione che viene dopo una lunga riflessione e dopo essermi informatomi molto sull’argomento. 

Il Centro studi Rosario Livatino composto da giudici e avvocati tra i quali spiccano Alfredo mantovano consigliere di corte di cassazione Domenico Airoma procuratore della repubblica di Avellino anno esaminato il ddl zan e sono giunti dopo un esame puntiglioso sono giuti a questa conclusione: “La legge sull’omofobia altro non è che la minaccia dell’olio di ricino per chiunque si opponga a un ricatto ideologico subdolamente autoritario” 

Silenziare chi non è d’accordo 

La nuova legge non difende omosessuali e transessuali da discriminazioni e violenze – per questo bastano già le leggi vigenti, nell’applicazione delle quali il giudice può riconoscere il pregiudizio a sfondo sessuale in forma di aggravante “per motivi futili o abietti” – ma serve a mettere a tacere chi ha una visione del mondo diversa da quella delle associazioni Lgbt, che diventerebbe l’unica legittimata ad imporsi. La nuova legge risulterebbe estremamente generica nell’individuare le fattispecie di condotte che configurano «atti discriminatori e violenti per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere», ottenendo il solo risultato di compromettere la libertà di espressione e di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione (art. 21), la libertà di associazione (art. 18) e la libertà religiosa (artt. 19 e 20). 

L’articolo 4 

L’articolo 4 del testo approvato dalla Camera, che afferma che «sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti», è il tipico caso della toppa peggiore del buco. Tre i suoi difetti: pretende di stabilire con una legge ordinaria ciò che è patrimonio costituzionale indiscutibile, cioè la libertà di espressione; evoca “condotte legittime” senza spiegare in cosa si differenziano da quelle illegittime; si contraddice aggiungendo che non devono essere idonee a determinare atti di discriminatori: ma le ha appena definite legittime! 

Il gender nelle scuole 

Che la legge promossa da Alessandro Zan mira a promuovere un’ideologia e una visione del mondo piuttosto che a difendere i diritti di qualcuno lo si comprende anche dal fatto che ha l’obiettivo di istituire una Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, che dovrà essere celebrata nelle scuole di ogni ordine e grado. La Giornata», è il grimaldello per l’ingresso del gender nelle scuole, ossia per legittimare gli “insegnamenti” sull’identità di genere, che a oggi richiedono l’indispensabile consenso informato dei genitori, e che invece col testo unico Zan finirebbero per non avere più ostacoli, potendo essere impartiti anche contro la volontà dei genitori». Il gioco appare tanto più scoperto quando si considera che i disabili, che pure sono stati introdotti fra i soggetti che la legge afferma di voler proteggere, non sono associati alla Giornata, che riguarda esclusivamente le discriminazioni di natura sessuale. Evidentemente i disabili sono stati inseriti nella legge per motivi meramente strumentali. 

Ora una delle opposizioni che fanno gli estensori della legge e chi la difende è che il gender non esiste e che è più che altro un’invenzione di chi la legge non la vuole ma l’obiezione fatta dagli estensori di questo articolo è chiaro. 

Conclusione: se si voleva veramente difendere la comunità lgbtq, le donne e i disabili bastava modificare il reato già esistente aggiungendo il reato di omotrasfobia senza toccare scuole e libertà di espressione così come specificato sopra. 


P.s. Parte delle informazioni del post sopracitato sono presi da un'articolo di Tempi. It


domenica 4 aprile 2021

Il piano segreto di Letta per il Colle

 


Enrico Letta, che ha scatenato una guerra fra donne nel Pd, ha in testa un solo uomo: Romano Prodi. Il nuovo che avanza. Il segretario, assunti i panni di un supereroe della Marvel, dopo la finta rivoluzione di genere, ha nostalgia del passato.

Piano diabolico

Si propone, infatti, di rispolverare il vecchio progetto maggioritario dell’Ulivo infilando una verniciata di quel che resterà dei grillini a guida Conte. La mission impossible del supereroe Letta è riuscire a piazzare il pacioso Mortadella al Quirinale per poi puntare lui stesso a Palazzo Chigi. Altrimenti perché mai avrebbe mollato il ritiro dorato di Parigi. Per realizzare questo piano diabolico, ha già individuato il prossimo obiettivo: rendere difficile il percorso verso il Colle del suo amico Mario Draghi il cui governo appare ancora disorientato. Ben vengano, quindi, agli occhi di Letta, le critiche della Lega di Salvini all’esecutivo, che si sposano con l’assenza di iniziativa dei ministri piddini (Franceschini, Guerini e Orlando). Non un’idea intelligente da parte loro sulle chiusure e sui relativi sostegni, per non parlare della rivoluzione digitale affidata a Colao e Cingolani, che girano a vuoto. Forse anche per il fatto che Draghi sembra non prestare loro alcun tipo di attenzione e per il modo sbrigativo del Premier di regolare i rapporti con i colleghi, a partire dallo spaesato responsabile del Mef, Daniele Franco.

Pd, partito ostaggio delle correnti

Quanto al Pd i primi giorni del “nuovo” corso trascorrono all’insegna della miglior retorica piddina. Con i numeri del virus e dell’economia che urlano vendetta, Letta prosegue con i soliti argomenti, dall’omofobia allo ius soli al voto ai sedicenni, mentre impazzano le correnti che hanno ripreso il potere assoluto nei confronti di un segretario che vuole comandare ma non sa farlo perché per sua natura è più uomo delle istituzioni che degli apparati. Nelle Baruffe chiozzotte alla Goldoni sull’elezione delle due capogruppo donne, il mantra di Letta: dopo averle sollecitate, se le è viste apparecchiate senza poter toccare palla, con drammi personali che si porteranno dietro una scia di veleni e di gossip, argomento principe nei conciliaboli notturni della dirigenza ex comunista. A partire dalla grande sconfitta, Marianna Madia, quella dello slogan “porto in dote la mia straordinaria inesperienza” che ha fatto l’intera carriera all’ombra dell’uomo di turno (da Veltroni a Letta, da D’Alema a Napolitano jr fino a Renzi), perfino nel passaggio in Rai, con l’autore più illuminato, Giovanni Minoli, dove ottenne subito un programma, o nel cinema, dove partecipò con un cameo nel film Pazze di me. Così come Debora Serracchiani, discutibile governatrice del Friuli, voluta da un capolavoro di palazzo tra Franceschini, Delrio e l’astutissimo Lotti, che ha impreziosito l’operazione ottenendo la vicepresidenza per il figlio di Vincenzo De Luca. Un partito, dunque, sempre più in balìa delle correnti, all’inseguimento dei grillini, con un segretario che però può contare sul Quirinale come ‘asso nella manica’.

Mattarella, il quale ha perfidamente guidato i giochini all’interno del Pd di Zingaretti, fino all’ultimo tenterà di farsi pregare per rimanere ma, se proprio dovesse decidere di farsi da parte, non disdegna l’idea di Romano Prodi con il ritorno del clan dei bolognesi. E per preparare il campo di battaglia sarebbe buono se in Rai, come Ad, venisse riparacadutata Tinny Andreatta, figlia dell’amatissimo Beniamino. Del resto, mamma Rai è sempre stata per le donne una riserva rosa. Basta leggere i nomi a seconda delle stagioni come nelle serie TV: è stata la volta delle mogli, delle figlie, delle amiche. Ed ora, anche dei nuovi generi che, giustamente, lottano per avere le loro quote.


Il piano segreto di Letta per il Colle - Luigi Bisignani (nicolaporro.it)