venerdì 26 novembre 2010

Ecco il Piano per il Sud

Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera definitivo ai due decreti che costituiscono il Piano per il Sud, illustrato giovedì alle parti sociali e agli enti locali. Ecco una sintesi del testo:

INFRASTRUTTURE: Obiettivo prioritario è la realizzazione, entro il prossimo decennio, di un sistema ferroviario moderno. Perno di questa strategia è la realizzazione dell'Alta Capacità su tre linee: Napoli - Bari - Lecce - Taranto; Salerno - Reggio Calabria; Catania - Palermo. Con il completamento di queste tre tratte e la realizzazione del Ponte sullo Stretto il Sud potrà contare su un moderno sistema di collegamento verso il Nord Italia e il Centro e Nord Europa essendo garantita l'interconnessione e l'interoperabilità fra i Corridoi transeuropei TEN, collegando il Corridoio I (Berlino - Palermo) con il Corridoio VIII (Bari - Sofia). Questi interventi verranno realizzati ponendo attenzione alla loro integrazione con il rafforzamento del sistema portuale. Nell'ambito del trasporto stradale, il Piano prende a riferimento le opere ricomprese tra le priorità strategiche indicate nell'allegato infrastrutture alla Dfp quali ad esempio la Olbia - Sassari, il completamento della Salerno - Reggio Calabria ed il sistema autostradale Catania - Siracusa - Gela - Trapani.

BANDA LARGA: Il Piano prevede la realizzazione di un piano di intervento per portare la banda larga a tutti i cittadini delle 8 regioni del Sud e garantire l'accesso a banda ultralarga ad almeno il 50 per cento della popolazione residente nel Mezzogiorno intervenendo in tutti i 33 capoluoghi di provincia delle 8 regioni meridionali.

SCUOLA: Piano di razionalizzazione e ammodernamento dei plessi scolastici con particolare attenzione a quelli del I e del II ciclo. A tale piano si affiancherà il completamento dell'infrastrutturazione informatica dei laboratori didattici.

AMBIENTE: L'immediato avvio del piano straordinario di azione per la riduzione del dissesto idrogeologico in tutto il Mezzogiorno. Per la prima volta lo strumento dell'accordo di programma consentirà in tale settore di unire e concentrare le risorse nazionali destinate (FAS nazionale e risorse del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare) con quelle regionali (FAS regionale e fondi di bilancio autonomo delle Regioni) in modo da garantire un piano di interventi finalmente coordinato e condiviso da tutti gli attori istituzionali.

BANCA DEL MEZZOGIORNO: Opererà come istituzione finanziaria di secondo livello, attraverso una rete di banche sul territorio che diverranno socie utilizzando la rete degli sportelli di Poste Italiane. A tal fine l'azione del governo mira a coinvolgere nell'azionariato un'ampia rete di banche con un forte radicamento territoriale, quali le banche di credito cooperativo e le banche popolari. La Banca del Mezzogiorno, che ha come missione lo sviluppo del credito a medio-lungo termine per favorire la nascita e l'espansione delle pmi, potrà anche ambire a gestire, secondo gli attuali indirizzi comunitari, il Fondo rotativo europeo JEREMIE per il Mezzogiorno, volto a sostenere credito agevolato, capitale di rischio e garanzie.

PMI: L'obiettivo del Piano nazionale per il Sud è di attivare un sistema di incentivi che favorisca la crescita dimensionale delle imprese meridionali. Il riordino degli incentivi persegue i seguenti indirizzi generali: una drastica riduzione delle leggi di incentivazione vigenti (ce ne sono circa 100 a livello nazionale e circa 1400 a livello regionale); la semplificazione delle procedure attraverso l'utilizzo di modalità telematiche; la flessibilità nella definizione degli strumenti d'intervento; il raccordo con le Regioni; l'introduzione, in particolare per le piccole e medie imprese, di modalita' semplificate di presentazione delle domande per l'accesso alle agevolazioni e di fruizione degli aiuti. La riforma riordina gli incentivi in tre categorie: gli incentivi automatici (con preferenza per l'utilizzo di strumenti di fruizione quali bonus fiscale voucher); bandi per il finanziamento di programmi organici e complessi; procedure negoziali per il finanziamento di grandi progetti d'investimento (oltre i 20 milioni di euro).

RIFIUTI: La realizzazione di un corretto ciclo di gestione integrata dei rifiuti nelle Regioni del Mezzogiorno è indispensabile. Per questo il piano punta ad avviare un'azione mirata per incrementare la raccolta differenziata e per realizzare l'effettivo coordinamento delle amministrazioni locali responsabili della pianificazione e realizzazione degli interventi, al fine di consentire una rapida implementazione di un corretto ciclo industriale di gestione dei rifiuti. Il piano si propone di garantire l'immediato avvio della realizzazione degli impianti di depurazione anche attraverso l'implementazione dei modelli contrattuali di gestione nell'ottica di una redditività trasparente ed utile all'incremento degli investimenti.

Moody's ci premia e l'Asta del Tesoro fa il pieno. Alla faccia della Faz


La Germania attacca l’Italia ma l’operazione allarmistica non funziona e il terrorismo psicologico di Tobias Piller (autore di un velenosissimo editoriale ai nostri danni) si trasforma in un flop: Moody’s rassicura i Mercati e l’Asta del Tesoro diventa in un successo.

La notizia tedesca viene diffusa in Italia nella mattinata di ieri. L’agenzia Agi riprende stralci dell’articolo, salvo, in serata, lanciare un flash che “annulla la notizia data in precedenza”. Un giallo. Ma sul sito della Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei principali giornali europei, la notizia c’è eccome.

Quasi in contemporanea con l’annullamento da parte dell’Agi però, Moody’s spende parole rassicuranti nei nostri confronti. La crisi del debito europeo non dovrebbe contagiare l'Italia, il cui merito di credito resta stabilmente ad 'Aa2', dice l'agenzia di rating, che specifica anche come dall'Irlanda, seconda vittima della crisi costretta come la Grecia ad attingere al Fondo di salvataggio europeo, i movimenti speculativi dei mercati finanziari sembrano ora dirigersi verso il sud Europa: il Portogallo e, soprattutto, la Spagna.

Le prospettive sul rating restano quindi «stabili», conferma da Londra un portavoce di Moody's. Parole che riecheggiano quelle pronunciate poche settimane fa da Fitch, secondo cui la crisi greca è stata presa come lezione in Europa, una lezione che in Italia «non è andata sprecata». Il rating assegnato all'Italia è 'Aa2', un gradino al di sopra del giudizio di Fitch (AA-) e due gradini sopra Standard & Poor's (A+). Alexander Kockerbeck, credit analyst di Moody's che segue l'Italia, spiega alla Reuters che «per pensare a un contagio bisogna immaginare a monte sviluppi concreti come problemi del sistema bancario, un'economia troppo debole o l'incapacità del governo di riformare il bilancio pubblico». Invece «nel caso dell'Italia non prevedo che alcuna di queste tre possibilità possa materializzarsi nell'immediato».

Certo c'è il debito molto elevato - al top della classifica europea con proiezioni che arrivano al 120% del Pil - ma, spiega Kockerbeck, «il debito elevato non è una novità», i governi italiani «sono abituati a strutturare i bilanci tenendo conto del costo del debito». E molti Paesi dell'area euro, una volta più virtuosi, sembrano destinati a entrare nella stessa fascia dell'Italia, con alto debito e bassa crescita. E neanche l'instabilità politica italiana, con una maggioranza quanto mai incerta, sembra turbare più di tanto l'analista di Moody's: «Il fatto che si sia deciso di approvare il bilancio prima di votare la fiducia - dice Kockerbeck sempre alla Reuters - è indice di una certa disciplina e mostra che tutti sono consapevoli». Con buona pace della Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Non solo. Sempre ieri il Tesoro ha chiesto e ottenuto dal mercato 10,5 miliardi, collocando Bot a sei mesi per 8,5 miliardi e Ctz per 2 miliardi. Mica poco per un momento come quello attuale! Mica poco se si considera che contro i 10,5 miliardi offerti ci sono state richieste per 17,45 miliardi. Senza considerare che, come scrive il Sole24ore, il ritocco all’insù dei rendimenti è stato contenuto rispetto alla emissione precedente.

Spostando l’attenzione sul fronte della politica economica invece, oggi il Consiglio dei ministri ha dato il via libera definitivo ai due decreti che costituiscono il Piano per il Sud illustrato giovedì alle parti sociali e agli enti locali. Conterà su risorse per 80 miliardi di euro e punterà sulle infrastrutture, dalle ferrovie a nuove scuole, sulla fiscalità di vantaggio e sulla Banca del Mezzogiorno.

Il giornalista Piller predice "scenari cupi per il futuro" e definisce l'Italia un Paese "senza guida, incapace di prendere decisioni e ben lontano dal compiere le necessarie riforme". Ebbene, il piano per il Sud (giusto per rimanere nel perimetro strettissimo dell'attualità) smonta il teorema. Riflettano, gli editorialisti dalla penna rossa della Frankfurter Allgemeine Zeitunga...

mercoledì 17 novembre 2010

La trattativa dello Stato con la mafia? Si scopre che la fece il governo Ciampi




Conso, l'ex Guardasigilli dell'esecutivo tecnico, ammette: "Non firmai il 41 bis per evitare altri attentati". Fu il risultato della trattativa?


La notizia è una profanazione al tempio del politicamente corretto: lo Stato si tirò indietro e non prorogò il 41 bis per 140 mafiosi. Correva il novembre ’93, il presidente del Consiglio era il tecnico Carlo Azeglio Ciampi e Guardasigilli era Giovanni Conso,l’insigne giurista di matrice cat­tolica già presidente della Consulta. Nei giorni scorsi, davanti alla Commissione antimafia, Conso è stato netto su un punto: «Non firmai per evitare altre stragi». Un’ammissione clamorosa che Conso ha provato a circoscrivere: «Fu una mia personale iniziativa». Inutile aggiungere che la postilla non convince. Davvero, il mini­stro della Giustizia prese una decisione di quella portata in totale solitudine?
Certo, fa riflettere che proprio il lodatissimo governo Ciampi, il governo tecnico, il Governo per eccellenza se­condo molti commentatori, abbia aperto una falla così im­po­rtante nella lotta a Cosa No­stra. Naturale pensare mali­ziosamente, ma neanche poi troppo: forse quella revoca ina­spettata fu un segmento della mitica trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra al centro di una complessa indagine della Pro­cura di Palermo. Il contesto è quello terribile di quei mesi: la morte di Falcone e Borsellino nell’estate del ’92,poi le bombe alle chiese e ai monumenti del luglio ’93. All’inizio di novem­b­re Conso decide di non rinno­vare i decreti per 140 mafiosi. Una scelta temeraria che fa tor­nare a galla antichi e nuovi so­spetti. Come mai Bernardo Pro­venzano già all’inizio del ’ 93 ras­sicurava i picciotti che il carce­re duro sarebbe stato revocato?
Da dove gli arrivavano queste certezze?Siamo nell’epoca dei governi Amato e Ciampi, sia­mo nella stagione degli esecuti­vi tecnici, puri e immacolati per definizione. Tanto che mol­ti v­orrebbero riproporre un ese­cutivo tecnico anche ora, per uccidere dolcemente il berlu­sconismo. Eppure qualcosa non quadra e ora proprio Con­so ci dice che certi retropensie­ri avevano un fondamento. C’era un canale di comunica­zione fra i boss e lo Stato?


Attenzione: in un appunto del 6 marzo ’93 l’allora diretto­re del Dipa­rtimento dell’ammi­nistrazione penitenziaria Nico­lò Amato consiglia a Conso, fre­sco guardasigilli, il dietrofront sul carcere duro per i mafiosi. Naturalmente le ragioni di que­sto passo indietro sono da cer­care nel garantismo di Amato che, in una lettera a Claudio Martelli, specifica: «Non vi è dubbio che la legge chiaramen­te configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo, ap­punto emergenziale». Però lo stesso Nicolò Amato ci fa sape­re che questa linea soft era stata discussa il 12 febbraio ’93 in un comitato nazionale per l’ordi­ne e la sicurezza. Di più: al Vimi­nale, nel corso di quella riunio­ne, si sarebbe discusso senza tanti spagnolismi della possibi­lità di eliminare il carcere duro, scoperto e rilanciato invece dal «colluso» Andreotti. Insomma, un dato pare a questo punto pa­­cifico: non è vero che lo Stato ab­bia sempre seguito, dopo la morte di Falcone, la strada del­la fermezza. No, non è così, e la marcia indietro passò proprio da uomini venerati come icone nazionali e considerati al di so­pra delle beghe meschine della politica.


Il presidente dell’Antimafia Giuseppe Pisanu prova a mette­re infila le date: fra il 27 e il 28 luglio avvengono le esplosioni diRomaeMilano.Il1˚novem­bre ’ 93 scade un altro blocco di provvedimenti 41 bis, ma nel frattempo Cosa Nostra tace. Im­prevedibilmente, tre giorni do­po quella scadenza, il 4 e il 6 no­vembre, il ministro di Grazia e Giustizia non proroga il 41 bis a 140 detenuti. Se ne può desu­mere che la trattativa-ricatto abbia prodotto i suoi effetti fra il 29 luglio e il 6 novembre? Do­manda inquietante cui Pisanu dà una prima risposta,nient’af­fatto tranquillizzante: «È co­munque plausibile ritenere che l’organizzazione mafiosa avesse interpretato quella revo­ca come un cedimento o una concessione dello Stato per i colpi subiti».


Insomma, alla trattativa av­viata nel ’92, secondo la magi­stratura palermitana, dal tan­dem Mori- Ciancimino si devo­no forse affiancare altri incroci fra pezzi delle istituzioni e fran­ge criminali. E la scelta di Con­so pare il punto d’arrivo di un percorso compiuto da diversi soggetti .
Ovvio, in questa situazione, porsi la solita domanda: ma se un’ammissione del genere,co­sì devastante, l’avesse fatta Ber­lusconi o uno dei suoi ministri, che cosa sarebbe accaduto? Ora,battaglioni di scrittori e po­lemisti sarebbero all’opera, nel tentativo di far quadrare il cer­chio e poter finalmente dimo­strare antichi teoremi, da sem­pre insegnati anche se privi di riscontri. Invece, lo stesso Ange­lino Alfano alla fine dell’anno scorso consegnava alla stampa i numeri da guerra del 41 bis: «Ho disposto 168 provvedi­menti in 580 giorni. I detenuti al 41 bis hanno raggiunto quo­ta 645».
Giovedì prossimo i pm di Pa­lermo ascolteranno proprio Nicolò Amato che a giugno ’93 è protagonista di un altro epi­sodio controverso, da allinea­re alle anomalie di quel perio­do oscuro: viene improvvisa­mente rimosso dalla direzio­n­e del Dap e torna alla sua pro­fessione di avvocato. Curioso: assume proprio la difesa di Vi­to Ciancimino. Tante sugge­stioni, anche contraddittorie, che precedono la svolta «uma­nitaria » di Conso. E dunque il regalo del governo Ciampi a Cosa Nostra sul 41 bis. Il no al carcere duro per paura delle bombe. Uno sfregio profondo alle istituzioni e un segnale di resa che, solo a ripensarci, fa venire i brividi.

Imbroglio Fli: assalto al premio di maggioranza


Se fanno cadere il governo i finiani tradiscono lo spirito della legge elettorale, appropriandosi di seggi che sono stati dati loro proprio per garantire la stabilità dell’esecutivo. All’estero i ribaltonisti vengono espulsi, in Italia sono difesi




E se domani nascesse, sulle ceneri del governo Berlusconi, un esecutivo tecnico, che ne sarebbe dei deputati eletti con il premio di maggioranza? Domanda innocente, eppure, potenzialmente, incendiaria, che ci riporta ai fondamentali della politica. Secondo logica, quei deputati dovrebbero rimettere il mandato. Ma la logica, in politica e in Italia, raramente trionfa.



Urge breve promemoria. L’attuale legge elettorale, per quanto criticata e certo perfettibile, attribuisce alla coalizione vincente un pacchetto di seggi supplementari, che permette di raggiungere circa il 55% dei seggi della Camera. Il principio è applicato anche al Senato, sebbene su base regionale e con calcoli complessi, che possono generare dinamiche fuorvianti, come avvenuto, ad esempio, ai tempi dell’ultimo governo Prodi. Lo spirito della legge Calderoli, nota anche come «porcellum», comunque, è chiaro: mira a garantire al governo una maggioranza confortevole per sottrarre il primo ministro ai ricatti e alle devianze tipiche della Prima Repubblica.
Dunque, teoricamente, se il governo legittimamente eletto venisse rovesciato in aula, il premio di maggioranza dovrebbe essere ricalcolato, estromettendo o, comunque, punendo i ribaltonisti.
La realtà, però, è diversa. In Italia chi tradisce la volontà popolare nel corso della legislatura non rischia assolutamente nulla. Per merito (o, meglio, per colpa) dell’articolo 67 della Costituzione, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», spiega a il Giornale il costituzionalista Paolo Armaroli.



Per intenderci: in alcuni sistemi elettorali il cambio in corsa non è permesso. Se un deputato, per qualunque ragione, si dissocia dal partito che lo ha candidato, il seggio viene revocato immediatamente e la parola torna agli elettori, che possono premiare o punire il ribelle.
In Italia, invece, vige ancora una consuetudine che risale alla Rivoluzione francese e che di fatto libera il deputato o il senatore da qualunque responsabilità. «La volontà popolare non è imperativa, né vincolante», continua Armaroli, che definisce l’articolo 67 della Costituzione «la foglia di fico dei ribaltoni». Una volta eletti a Montecitorio o a Palazzo Madama, deputati e senatori devono rispondere unicamente alla propria coscienza. Fino a fine legislatura.
E questo spiega la tranquillità di Fini e dei suoi 45 parlamentari. Possono fare quel che vogliono, persino appropriarsi di fette consistenti del premio di maggioranza. D’altronde, anche ipotizzando di scorporare da Futuro e Libertà la quota ottenuta con il premio di maggioranza, sarebbe necessario procedere a calcoli complicatissimi e arbitrari, considerato che il «porcellum» non contempla il voto di preferenza. Insomma, una soluzione non percorribile.
Sarebbe molto più saggio, invece, rispolverare un progetto di legge presentato nel 1999 dallo stesso Armaroli, all’epoca deputato di Alleanza nazionale, che proponeva di abolire il principio del divieto di mandato imperativo, rendendo inscindibile il patto politico con gli elettori. Ma la sua richiesta fu respinta dal centrosinistra e boicottata da diversi esponenti del centrodestra, che non gradivano l’obbligo di coerenza e il rispetto della parola data. Preferivano non privarsi dell’arte più subdola e pervasiva della politica italiana; quella del trasformismo. Con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

giovedì 11 novembre 2010

Crolli senza padre se al potere c’è il centrosinistra

Tiro al bersaglio su Bondi, per l'opposizione è lui responsabile dei danni. Solo un pretesto per colpire il Cavaliere: quando a cedere a ripetizioni furono le Mura Aureliane nessuno chiese la testa di chi gestiva i Beni culturali, dalla Melandri al sindaco Veltroni




Certo, si sarebbe potuto fare di più e prima. Per esempio, seguire la geniale idea del sindaco di Pompei, l’ex piddino (da poco Udc) Claudio D’Alessio, che il 31 ottobre scorso, una settimana prima dell’incidente, aveva proposto questa felice intuizione per la tutela dell’area archeologica: far scorrazzare i cavalli da corsa nelle rovine («Sogno una gara ippica tra gli scavi»). Quisquilie passate inosservate, perché quel che conta è impallinare il governo, farlo cadere con una mozione qualsiasi, ora che la crisi è dietro l’angolo. Quella sulle dimissioni di Bondi, ad esempio, l’unico e supremo colpevole del crollo a Pompei.

A Ballarò il ministro è stato linciato, trattato come un incapace, sbeffeggiato. «Di chi è la colpa, se non del responsabile dei Beni culturali, eh?» gli hanno chiesto, parandosi dietro la difesa del patrimonio culturale, nota passione degli archeologi Di Pietro e Urso. Bondi, praticamente circondato, ha reagito debolmente, ricordando che «crolli ce ne sono stati molti in passato, senza che nessuno chiedesse le dimissioni del ministro». Ma l’arena dei talk show è molto più dura di quella dei gladiatori pompeiani, e quindi l’effetto è stato nullo. Peccato, perché il povero Bondi avrebbe anche ragione. Basta una ricerca negli archivi del suo ministero ed esce un elenco che dimostra un fatto evidente: la tutela del patrimonio artistico interessa alla politica solo quando serve a dare la colpa all’avversario, specie se è un governo di centrodestra, specie se capita in un frangente di crisi, specie se al ministero preposto c’è Bondi.
Nell’aprile 2001, stante la veltroniana Giovanna Melandri ministro dei Beni culturali, vennero giù venti metri di Mura Aureliane all’altezza della Porta Ardeatina. «Roma si è svegliata senza un pezzo della sua storia», scrisse il Messaggero. Intervennero prontamente i pompieri, anche quelli cartacei filogovernativi di Repubblica, che diede mezza pagina alla scandalosa prova di incuria ma spense subito ogni possibile addebito alla ministra diessina: «Crollo Mura Aureliane. Colpa di una infiltrazione», cioè colpa di nessuno. E poi sotto «Una commissione studierà le cause del crollo», come dire: aumma aumma, non ne parliamo più. Neppure l’ombra di una richiesta di dimissioni, anzi, la Melandri non fu nemmeno nominata. Stessa cosa nel 2007, ancora governo ulivista (Rutelli ministro della Cultura, Veltroni sindaco di Roma), ancora Mura Aureliane. Crolla un capitello, vroom, nessuno fiata. Stesso mutismo qualche mese dopo, novembre 2007, quando crollarono altri 10 metri di Mura Aureliane («Lo stesso tratto di parete era stato transennato il mese scorso su consiglio dei Vigili del fuoco», scrisse il Messaggero, testimoniando l’incuria). Mozioni contro Rutelli? Nemmeno mezza.

Anche su Pompei c’è qualche dato da ricordare. Le pareti delle domus non crollano da sole appena sanno che Bondi si è insediato al ministero, ma tendono a farlo sempre, causa totale disinteresse delle amministrazioni, soprattutto locali. Il direttore degli Scavi di Pompei Antonio D’Ambrosio ha fornito un elenco dei crolli che fa impressione. Ogni anno ha la sua croce, se non di più. Nel 2003 si stacca parte del soffitto del Thermopolium, crolla un pezzo di muro dell’Insula Occidentale, si infiltra dell’acqua che danneggia la Casa della Regina Margherita e l’ingresso dei Teatri, crolla un intonaco della Casa degli scienziati. Nel 2004, altro crollo all’Insula Occidentale e parziale crollo di muratura in altra parte del sito; 2006, viene giù parte di un muro del Vicolo delle Nozze d’argento. Nel 2008 ancora un altro cedimento, nel 2009 altri due. Mai nessuna polemica o richiesta di dimissioni. Neppure nel febbraio 2010, cioè epoca Bondi, quando crolla parte della Domus degli Augustali a Pompei, o a marzo, quando cede il soffitto della Domus Aurea a Roma. Ma non c’era crisi di maggioranza, e allora perché interessarsi del patrimonio storico-artistico? Ma Bondi non dà i soldi, e anzi taglia, si dice, dimenticando che è il Tesoro a gestire le risorse.

Non solo, il Sole24Ore racconta che il Sud ha usato solo il 5% dei 5,9 miliardi dei fondi Ue per i beni culturali. «È il risultato di veti e interessi contrapposti tra lobby stratificate a livello locale», scrive il Sole, che aggiunge: «Bondi fa bene a evidenziare un problema di capacità gestionale delle risorse». Però, se lo dicesse dopo essersi dimesso sarebbe ancora meglio. Perché più, molto più del crollo di Pompei, interessa il crollo di Berlusconi.

mercoledì 10 novembre 2010

E si spacciano pure per moralizzatori... - I futuristi fanno i furbi con la casa degli altri

E si spacciano pure per moralizzatori... -




I futuristi fanno i furbi con la casa degli altri

di Mario Giordano





ACCUSE . Il comune delle Eolie lo accusa fra l'altro di aver realizzato movimenti terra illegittimi in un'area sottoposta a vincolo idrogeologico e sismico.

I futuristi fanno i furbi con la casa degli altri. Ha cominciato Fini a Montecarlo, ora Luca lo imita con la sua abitazione nella Capitale. E lui è pure recidivo: vi ricordate la sua piscina irregolare a Filicudi?




Ma allora è un vizio.


È ufficiale: i finiani non resistono alla tentazione di fare i furbi con la casa degli altri.

Ha cominciato il medesimo Fini a Montecarlo, ora Luca Barbareschi lo imita a Roma: se Gianfranco ha disposto a suo piacimento dei locali di proprietà del partito, pare che l'attore-deputato abbia disposto a suo piacimento dei locali di proprietà di un condominio.

E dunque attenti: se tanto mi dà tanto, c'è il rischio che a Italo Bocchino, notoriamente propenso a esagerare, venga in mente di organizzarsi direttamente un loft personale all'interno della Reggia di Caserta.



Che ci volete fare?

Sono fatti così: per costruire un partito, in genere tutti gli altri cominciano a gettare le fondamenta.

I finiani, invece, no: loro occupano direttamente i palazzi.

È il nuovo che avanza nel nome della legalità.

Delle regole.

Del rigore.

E della moralità.



Per rispettare tutto questo Luca Barbareschi Sciock s'è impegnato a fondo, anzi di più: si sta impegnando a fondo da tempo.

È del 2002, infatti, la sentenza che lo condanna per avere occupato abusivamente spazi condominali nel bel palazzo di piazza Mattei, al ghetto di Roma, zona prestigiosa a due passi da piazza Venezia, dove pare abbia costruito anche un ascensore che dal pian terreno sale direttamente nel suo meraviglioso attico.



Un vicino di casa lo ha accusato di aver inglobato un pianerottolo, di aver eliminato un lucernario, di aver costruito un solaio intermedio «con conseguente acquisizione di proprietà condominiale», di aver realizzato un vano abusivo sul terrazzo e di aver chiuso con cemento le canne fumarie degli appartamenti, il tutto per allargare il proprio alloggio in modo imponente.



E il 15 febbraio 2002, appunto, il giudice, in nome del popolo italiano, «ha accolto la domanda», seppur «limitatamente alla rimozione del solaio» e «ha condannato il convenuto alla rimozione della predetta opera e al ripristino dei luoghi entro sei mesi dalla comunicazione da parte della cancelleria».



LA LOTTA AI VIZI (ALTRUI) - Ora un amante del rigore, della legalità, delle regole e della moralità, uno che va sul palco di Perugia a leggere il manifesto per l'Italia e si commuove quando dice di volere un Paese che «sanzioni l'abusivismo» e che«combatta i furbi», uno così, dicevamo, se viene condannato per aver costruito abusivamente sugli spazi che erano di tutti gli altri condomini in un palazzo storico nel centro di Roma, secondo voi, che cosa fa?

Convoca una riunione di condominio e si cosparge il capo di cenere?

Chiede scusa e ripristina i luoghi entro sei mesi, come gli è stato chiesto?

Si costerna e comincia a lavorare di piccone?



Macché, tutt'altro: in attesa di «sanzionare l'abusivismo» e «combattere i furbi», come dice il manifesto per l'Italia, il furbo Barbareschi pensa soltanto a evitare la sanzione e ricorre in corte d'appello.

Dove viene di nuovo condannato, i14 novembre 2005, con l'aggiunta dell'obbligo a pagare le spese processuali.

A questo punto che fa l'eroe della nuova Italia, l'uomo che si commuove proclamando i valori di un Paese rispettoso e «intransigente», il portavoce culturale che si è fatto paladino dell'«etica pubblica e del senso civico», con tanto di lacrimuccia al seguito?

Chiede scusa etc. etc?

Si cosparge il capo di cenere etc. etc.?

Macché, un'altra volta: ricorre in Cassazione.

E prende altro tempo, così intanto può continuare a vivere negli spazi che secondo il tribunale dovrebbero essere restituiti al condominio.

Nota bene: la causa giace in Cassazione da 5 anni, da 8 gli abitanti di piazza Mattei aspettano di veder riconosciute le loro ragioni secondo quanto stabilito dal giudice.



Poi dicono che i finiani sono contro il processo breve: e per forza, no?



Del resto si sa, la lotta agli abusivismi diventa intransigente solo se si tratta di abusivismi altrui.

Barbareschi, l'uomo del manifesto per la nuova Italia, aveva già dato ampia prova di avere un debole per i vecchi vizi italiani: quest'estate, infatti, era stato denunciato per aver costruito una piscina irregolare a Filicudi, piccola isola, 250 abitanti appena, nell'arcipelago delle Eolie.

Un luogo così prezioso da essere proclamato patrimonio dell'Unesco.

«Macché piscina, è una cisterna per l'acqua», aveva cercato di giustificarsi lui, che è un po' come se uno beccato dalla moglie ad abbracciare l'amante, dicesse: «Cara, non ti preoccupare: non vedi che è una barbabietola?».



Per carità, si può credere a tutto, ma il sindaco di Filicudi non ha dimostrato sufficiente spirito e all'inizio di settembre ha dato ordine di abbattere la costruzione.

Barbareschi ha annunciato, ovviamente, ricorso al Tar, tanto si sa che il processo è lungo e chi vivrà vedrà.



Nell'ordinanza di demolizione e di ripristino, il Comune accusa fra l'altro il deputato finiano di aver realizzato anche movimenti terra senza forestale in un'area sottoposta a vincolo idrogeologico e sismico, di aver creato porte e finestre non previste dai progetti e soprattutto di aver ampliato vani. Proprio così, manco fosse un condominio del centro di Roma.





LE ASSENZE IN PARLAMENTO




Lo vedete?

È davvero un vizio.

Fra l'altro costruire abusivamente in un luogo protetto dall'Unesco e per di più a rischio idrogeologico e sismico non dev'essere stato facile per uno che vuole un'Italia che «difenda e valorizzi l'ambiente, il paesaggio, le bellezze naturali, il suo straordinario patrimonio culturale e storico», come ha letto Barbareschi sul palco di Perugia.



Chissà che cosa stava pensando mentre recitava quelle parole con voce rotta dall'emozione?

Alla piscina-cisterna?

Ai vani in più di Filicudi?

O agli spazi condominiali occupati abusivamente nel cuore della Capitale?



Del resto lui alle contraddizioni è piuttosto abituato: «il centrodestra mi ha deluso», disse in un'intervista poco prima di candidarsi alle politiche con il centrodestra; «sono un socialista, non posso stare con i forcaioli», dichiarò prima di schierarsi con i forcaioli di Fli; «farò un programma tutto nuovo», promise prima di lanciare su La7 il Barbareschi Schock, che poi si rivelò zeppo di battute scopiazzate da Internet.



Ma sarà proprio questa l'Italia annunciata dal manifesto di Perugia?

Prima di candidarsi alle elezioni politiche del 2008, il pasdaran finiano aveva promesso: «Lascerò le aziende in un blind trust».

Nell'ottobre 2009 confessò a "Il Fatto quotidiano": «Ho un'attività imprenditoriale da mandare avanti». Evidentemente non aveva lasciato un bel nulla.

A quella data le sue assenze dal parlamento erano spaventose: oltre il 52 per cento di sedute saltate. «La paga da deputato non mi basta», si giustificò, «devo lavorare».



Devo lavorare?

La paga da deputato non basta? 23mila euro lordi al mese (più benefit) non sono sufficienti?

E che ci deve fare con tutti quei soldi Barbareschi?

A questo punto il dubbio è legittimo: non è mica che, in nome dell'Italia delle regole e del rispetto, abbia in mente qualche altra ristrutturazione abusiva?

lunedì 8 novembre 2010

Dal Predellino che intende unire al Finianismo che intende dividere


Se un giorno – per dirla con Giorgia Meloni – il tempo sarà galantuomo, Fini Gianfranco, leader di Futuro e Libertà, verrà ricordato soprattutto per il suo «demerito»: quello di essere riuscito a dividere la destra italiana che Berlusconi, nel bene e nel male, intende(va) unire, magari in una sintesi con il centro. Non si potrà dire pertanto che Fini abbia voluto unire. Fini ha voluto separare. E nel farlo si è separato lui stesso dal suo popolo, o comunque da una sua parte consistente: la maggioranza. Perché tuttora non credo che avrà grande seguito a destra. Per ricordare ancora le parole di Alemanno: FLI aspira al centro, e questo in un certo senso dovrebbe preoccupare Pierferdy Casini, il quale a mio avviso forse farebbe meglio a tendere la mano al Cavaliere. Ma non una mano mortale, ma una mano sincera, capace di mettere il leader di FLI all’angolo.
Fini comunque è servito ottimamente allo scopo che la sinistra sognava di raggiungere da tempo: spezzare il centrodestra. Il primo atto si è avuto nel 2008, quando Casini decise di andare da solo e mollò Bossi, Fini e Berlusconi al loro allora fausto destino: vincere le elezioni. Il secondo atto si è avuto più o meno questa estate – benché le avvisaglie risalissero nel tempo – quando è stato lo stesso Fini, spinto dalla sinistra e dalla sua ambizione, a tradire il Cavaliere e a mettersi nuovamente in proprio, fondando una nuova ditta. La solfa poi la conosciamo: Fini che accusa il PDL di averlo cacciato. Una solfa che non regge perché fin da piccoli impariamo a nostre spese che la corda se tirata per troppo tempo e troppo forte alla fine si spezza. Fini l’ha spezzata diverse volte e alla fine si è autocacciato. Se c’è pertanto qualcuno al quale egli deve attribuire responsabilità in merito, quel qualcuno è proprio lui stesso.
Quando un giorno Fini verrà ricordato, verrà probabilmente ricordato come il «divisore» della capacità moltiplicativa operata dal Predellino che ha posto le basi per la nascita del PDL. E del resto, i consensi non si comprano agli angoli delle strade, ma si conquistano. E il PDL ne aveva conquistati parecchi. Poi però il dilapidatore ha rotto il giocattolo: ha rimesso tutto in discussione, anche i valori fondanti della destra, pur di scalzare dallo scranno più alto il leader. «Non ci gioco più», sembra di sentirgli urlare. «Voglio giocarci io, ora». E al no chiaro del leader, sono seguiti i dispetti. E poi il divorzio. E con il divorzio, anche i «figli» si sono separati: padri contro madri, sorelle contro fratelli, amici contro amiche, colleghi di partito contro colleghi di partito, ex-finiani contro i neo-finiani. Il tutto in un crescendo delirante e parossistico di astio e di livore che ha reso il centrodestra un vero e proprio campo di battaglia dove chi era amico, chi lottava fianco a fianco contro l’avversario comune – la sinistra – ora lotta contro il proprio «fratello» ideale.
Una desolazione. C’è chi ha costruito e c’è chi ha distrutto. E la colpa, a sentire poi le ragioni di Fini, è solo di Berlusconi. Non c’è, in altre parole, nei discorsi finiani alcuna ammissione di (co)responsabilità, se non quella del «senno di poi». L’unica ammissione fatta dal leader di Futuro e Libertà è infatti quella di aver sbagliato ad acconsentire di far confluire AN nel PDL. Quasi che AN fosse cosa sua e la base degli elettori che ha creduto nel progetto non contasse nulla. E allora mi domando: se questa è la verità, perché il PDL ha sbancato nel 2008?
La realtà mi pare piuttosto un’altra. Il successo del PDL ha spaventato Fini; gli ha fatto realizzare che per sedici anni lui non ha contato nulla nell’alleanza. Il rapporto che contava, che pesava, era quello tra Berlusconi e Bossi e tra questi e gli elettori; Fini e Casini sono sempre stati dei comprimari, dei «colonnelli» del leader dell’ex Forza Italia. Capi di fazioni minoritarie che ruotavano intorno all’uomo di Arcore e alla sua forza elettorale e nulla più. Ecco perché dopo Casini, anche Fini alla fine si è lasciato trascinare dalle sirene dell’ambizione e della sinistra: perché si è trovato in un vicolo cieco. O «morire» da secondo, oppure tornare a essere il primo, ma non il solito primo «berlusconiano» – prospettiva questa che l’avrebbe riportato al ruolo di sempre: quello di comprimario – ma il primo «post-berlusconiano». E per farlo, non poteva che inventarsi una nuova destra; una destra diversa (anche idealmente); una destra che non si sovrapponesse a quella del PDL. Una destra che doveva trovare alleanze là dove il berlusconismo non aveva fatto breccia e dove era malvisto e nemmeno tollerato: negli ambienti dei poteri forti, delle istituzioni privilegiate e della sinistra salottiera e buonista.
Il resto della storia lo conosciamo. Il «divisore» ha operato bene. Ha raggiunto lo scopo. Chi si è servito di lui oggi brinda con lo champagne. Quello che non era stati capaci di compiere le gioiose macchine da guerra occhettiane, dalemiane, veltroniane e prodiane, e nemmeno quelle leghiste, è riuscito a compierlo lui, Fini Gianfranco. Il politico che verrà ricordato per aver diviso ciò che altri avevano unito…

venerdì 5 novembre 2010

Dal Cdm il sì al pacchetto sicurezza: wi-fi libero Nuova stretta su immigrazione e prostituzione



Nuove norme per la lotta alla criminalità e la sicurezza nelle manifestazioni sportive. Espulsione anche per gli stranieri comunitari. Foglio di via per le prostitute di strada. Ripristino dell'arresto per flagranza differita. Berlusconi: "Bertolaso in pensione dall'11 novembre, perdita importante"

Roma - Il Consiglio dei ministri ha approvato il pacchetto sicurezza, composto da un decreto e un ddl. Berlusconi: "È uno dei 5 punti del programma di governo". Decretato, inoltre, lo stato d’emergenza per le zone colpite dal maltempo dei giorni scorsi.

Pacchetto sicurezza Composto da un decreto legge e da un disegno di legge, il Consiglio dei ministri contiene misure per la lotta alla criminalità organizzata, per la sicurezza urbana, per quella nelle manifestazioni sportive e per il rafforzamento dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla mafia.

Espulsione per i comunitari Tra le diverse le misure contenute nel provvedimento, la possibilità di espellere cittadini comunitari, il ripristino dell’arresto in flagranza differita per i tifosi violenti e la liberalizzazione delle connessioni internet. Nel pacchetto anche misure di sicurezza urbana come una stretta contro la prostituzione su strada e l’accattonaggio.

Lotta alla prostituzione Giro di vite del governo contro la prostituzione. Il presidente del Consiglio ha annunciato che le norme già varate dall’esecutivo verranno reiterate nel nuovo pacchetto e il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha annunciato che sarà applicata la misura del foglio di via per chi esercita la prostituzione su strada violando le ordinanze dei sindaci in materia.

Stato d’emergenza E' stato approvato per le zone colpite nei giorni scorsi dall’ondata di maltempo. Tre i morti nella regione, più di 3.000 sfollati, 500.000 persone colpite in diverso modo, 131 Comuni interessati, con danni stimati per almeno un miliardo di euro.

"Sequestrati 18 miliardi" "Il Cdm ha espresso un plauso a Maroni per ciò che ha fatto fino ad ora nel contrasto della criminalità organizzata. I beni sequestrati alle organizzazioni criminali ammontano a 18 miliardi di euro, soldi che possono essere utilizzati per rafforzare la sicurezza dei cittadini", ha affermato il premier. "I provvedimenti approvati consentiranno una maggiore sicurezza per i cittadini e un maggiore controllo dell’immigrazione".

Berlusconi: "Una grande mole di lavoro" Una "grande mole di lavoro", nella direzione indicata dal piano in 5 punti per il rilancio dell’azione di Governo. Silvio Berlusconi rivendica i risultati del Cdm di oggi: "Come anticipato nei giorni scorsi, abbiamo approvato anche la misura che rientrava in uno dei 5 punti operativi di rilancio del nostro programma annunciati nel mio discorso in Parlamento su cui abbiamo avuto una fiducia ampia".

Il premier: "Bertolaso lascia, perdita importante" "L’11 novembre Bertolaso dismette di essere capo della Protezione Civile e sottosegretario perchè va in pensione. È una perdita rilevante e importante, che sentiremo". Il premier nel corso della conferenza ha annunciato l’addio dopo 9 anni di Bertolaso al Dipartimento di via Ulpiano. "Stiamo cercando di trovare un modo - ha aggiunto il premier - che ci consenta di proseguire la collaborazione" per continuare ad avvalersi della sua "capacità superlativa".

Stato d'emergenza per cinque regioni Il Consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza per cinque regioni colpite nei giorni scorsi dal maltempo. Si tratta di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Toscana e Calabria. Il sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, ha spiegato che sono stati stanziati per fare fronte alle prime necessità 20 milioni di euro. Bertolaso ha quindi spiegato che la Protezione civile "non ha avuto nessuna differenza di comportamento nelle diverse realtà da nord a sud, che opera allo stesso modo e con lo stesso impegno da Bolzano a Lampedusa".

martedì 2 novembre 2010

Il paradosso campano (Di Curzio Foghini)

La scorsa settimana seguii un porta a porta fino alla fine perché m’interessava.
C’era Nicola Cosentino.
Mi rallegrai quando Cicchitto disse a De Magistris: “se fossi portato in giudizio e ci
fosse lei come inquirente non potrei far altro che preoccuparmi”. Finalmente! Un
deputato del Pdl che dice di non aver fiducia nei magistrati e quindi nella giustizia
da loro amministrata. Quando cominceranno tutti a dire questo e non la solita
frase ipocrita di credere nella giustizia e che questa deve fare il suo corso?
Un campione di tartufismo fu, nella stessa trasmissione, il signor verginiello
Tabacci che, seraficamente, disse di essersi sottomesso alla giustizia quando fu
inquisito, ma che dopo 7 anni, nel 2001, finalmente poté riprendere la sua attività
politica dopo essere stato riscontrato “verginiello”. Ma pensa il signor verginiello che
questo gli sarebbe stato possibile senza Berlusconi?
Ma veniamo al punto, la Regione Campania, e raccontiamo la favoletta per i
bambini.
Once upon a time fu eletto un presidente di nome Rastrelli, appartenete ad An e
quindi fascista. Non importa se il fratello gesuita era parroco della chiesa del Gesù
Nuovo dove aveva creato un centro antiusura per aiutare i piccoli commercianti. A
questo il fratello presidente contribuiva con la donazione del proprio emolumento
politico, che cretino direte voi rispetto a quelli che vennero dopo. Ma era fascista. In
Campania i migliori lo subirono per tre anni, ma alla fine ebbero la meglio e lo fecero
dimettere. Le elezioni portarono al potere Antonio da Afragola che mi fu molto
simpatico perché era il bersaglio di due comici napoletani, tali D’Angiò e Rizzo
(quello che oggi è in TV e fa le fictions) che lo bersagliavano elegantemente a Canale
21. (Giova fare una postilla per dire che quello che facevano i due comici allora era a
quota stratosferica rispetto a quello che fanno oggi i laidi cialtroni che occupano la RAI:
Littizzetto, Crozza, Vergassola, Dandini, Travaglio (ma è un comico?) ecc. che è poco più
di merda. Superiorità delle TV locali rispetto a quella di stato.).
Passarono due o tre anni da che Antonio aveva occupato Palazzo S. Lucia, che la
magistratura ritenne di mandare a Napoli dalle Calabrie il Procuratore capo Agostino
Cordova. Era un incrocio tra un cinghiale ed un bulldog e aveva un occhio
appannato. Non era insomma un bell’uomo come “Corvo Bianco” che si era fatto
onore in quel di Palermo, così dicono. Il nostro era uno che con il grifo voleva
grugnire a destra e a sinistra e questo non piacque ai cinghialotti che lui doveva
guidare nei prati verdi della malavita campana.
Successe il finimondo, i cinghialotti volevano seguire le loro inclinazioni e
preferivano nutrirsi delle erbe e tuberi che più piacevano loro e non andare a
grufolare dove veniva loro indicato dal nuovo venuto. In poco più di un anno questi
venne trombato per “incompatibilità ambientale” e mi sembra che fosse destinato al
servizio penitenziario, ma non ricordo bene. Così si ribadì il principio, come altre
volte era stato fatto che “all’intero della magistratura se il mio capo non mi è gradito
faccio di tutto per togliermelo dalle palle pur di fare il mio comodo”, principio che,
fortunatamente, non vale in altri settori della vita pubblica e privata. Oggi i
cinghialotti strillano come aquile cui strappano le penne dal culo, perché vogliono
continuare a fare i cavoli propri.
Antonio d’Afragola ebbe un sospiro di sollievo e con i suoi scagnozzi, finalmente
con le mani libere, poté fare, come si dice a Napoli, “carn’ ‘e puorco”.
Ma cosa fece o meglio cosa non fece? Dove ritenne di aver la scusa delle mani
legate dall’ipoteca ambientalista del pecoraio e dalla camorra non fece niente e quel
poco che fece le fabbriche delle ecoballe, grossi cioccolatoni di pattume, insieme alla
Fibe, gli avrebbe meritato l’evirazione, o se si vuole essere più indulgenti la
reclusione nella torre della muta e la damnatio memoriae. I cinghialotti tentarono
d’incastrarlo, ma un compagno che sbaglia deve essere guardato con comprensione
ed indulgenza, si può sempre ravvedere e quindi si deve dargli tempo. Quello che
accertarono e scrissero fu che, non essendo Antonio un tecnico, non era
responsabile di quello che aveva fatto o meglio di quello che altri gli avevano fatto
firmare. E qui c’è il concentrato massimo della logica de magistrati che fa a pugni
con quella del comune buon senso. Di fronte all’evidenza di mucchi di ecoballe
ammucchiati in mastabe, (perché la regione campana ha una forte vocazione
archeologica, voleva emulare gli egiziani di un tempo che ci avevano lasciato quei reperti
archeologici) che si moltiplicavano a dismisura nel territorio, dei quali non si sapeva
cosa fare, se non che di spedirli in Germania, situazione di per se illogica, assurda e
paradossale per il buon senso comune, ma non per la logica del nostro e dei giudici
che lo dovevano giudicare, di fronte alle diatribe infinite partorite dalla sindrome del
nimby, dissero che non essendo un tecnico Antonio d’Afragola non era responsabile.
Ma come dico, il nostro non avrà avuto conoscenze tecniche, ma un po’ di comune
buon senso si. Ma la logica superiore del potere giudiziario è insindacabile e
per il futuro siamo certi che governerà questo paese.
Torniamo però al nostro Antonio d’Afragola. In altri campi dove aveva le mani più
libere cercò di intrallazzare forse un po’ troppo. Per questo gli amici cinghialotti non
poterono non annusare qualche altro tartufo un po’ grosso e profumato. Le azioni
furono intraprese, ma si diressero tutte verso scagnozzi di secondo piano, le altre
verso Antonio furono strascicate per le lunghe fino ai giorni nostri e chi sa per
quanto tempo ancora.
Ma i cinghialotti non potevano farsi capaci che tutto fosse riconducibile ad
Antonio da Afragola per questo cercarono di trovare altri tartufi. Il tempo era
passato e si avvicinavano le elezioni regionali. La montagna di pattume, che aveva
sommerso Napoli come un’eruzione del Vesuvio, era stata troppo grande e si correva
il rischio che travolgesse tutta la congrega di potere che si era costituita in
Campania. Allora i cinghialotti si diressero contro chi, a livello regionale, poteva
rosicare consensi che non sarebbero stati dalla parte di Antonio e why not se non
verso il duca di Benevento e la sua consorte? Ci provarono due volte: la prima lo
costrinsero a dimettersi da guardasigilli e la seconda, per questioni di
raccomandazioni, rispolverarono la pena dell’esilio per la consorte in un impeto di
giustizia creativa.
Questo però non poteva bastare per assicurare continuità di potere e poiché, per
quasi 20 anni con il passo felpato della pantera rosa, i cinghialotti avevano
attenzionato tutti gli emergenti politici locali del centro destra, appena uno di questi
si propose come candidato alla regione Campania lo stroncarono spolverando tutto
quello che sapevano di lui, accumulato in tanti anni d’attenzioni mirate che il
reprobo cinghialone trombato voleva impedire o limitare. Non importava che le
risultanze fossero irrilevanti bisognava alzare il tiro e richiedere l’arresto per fare un
pò di casino, tanto poi i tempi del processo sarebbero stati lunghi a sufficienza per
far passare “’a nuttata” ossia le elezioni e nell’eventualità che il processo avesse
fatto la fine di quello di Andreotti nessuno dei cinghialotti avrebbe pagato.
Morale della favola. La logica superiore dei “superiori” della magistratura non è
in sintonia con quella comune che con il detto “propter hoc ergo post hoc” ha
consentito fino ad oggi lo sviluppo delle normali relazioni umane. Le
responsabilità politiche non esistono più se il politico è di sinistra. A chi è di
destra gli si dice attenzione tu non sei fit e quindi stai buono se non vuoi andare in
galera.
Ora miei cari Berlusconi ha resistito a lungo a questo tipo di logica perché aveva
spalle e disponibilità larghe. Ma nel futuro un ominicchio del centro-destra con
poche possibilità materiali chiederà solo voti per mantenere il proprio status di
parlamentare e vivacchiare a Montecitorio e quindi la possibilità di incidere sulla
struttura economica del paese e migliorare le speranze per le generazioni future sarà
azzerata.
Curzio Foghini

P.S. Ora che il problema "munnezza" è tornato alla ribalta è ritornato di attualità.L'Unità fa il count down per vedere se Berlusconi ce la farà. Ma chi tifa contro Berlusconi tifa per la camorra.E' patente che è la camorra che impedisce la raccolta differenziata nei quartieri periferici di Napoli ed è sempre la camorra che strumentalizza le proteste dei cittadini della cintura vesuviana e di Giugliano. Sotto un certo punto di vista hanno ragione. Se si guarda bene ogni tanto ci fanno vedere le mastabe fatte da cioccolatoni di munnezza. Di queste ce ne stanno tante nella pianura a nord di Napoli un tempo vocata all'agricoltura, che sono il lascito di 10 anni di Antonio di Afragola e di Alfonso pecoraio. Si aggiunga l'ignoranza e la propensione all'ammuina così il quadro è completo per rappresentare una situazione da terzo mondo.Conosco Napoli perché vi ho lavorato agli inizi della mia carriera 52 anni fa e mia moglie è napoletana. Entrambi ci rosichiamo le mani.

Curzio Foghini