venerdì 30 aprile 2010

Grecia, Berlusconi: "Prepariamo una misura da 5,5 mld di euro"


''Credo che non ci debbano essere dubbi sulla stabilità del nostro governo per i prossimi tre anni''. E' quanto dichiara il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, sul fronte europeo, annuncia un intervento per la vicina Grecia. "In queste ore, sono in continuo contatto con il ministro del Tesoro Tremonti, stiamo mettendo a punto il decreto legge con il quale l'Italia darà probabilmente cinque miliardi e mezzo di euro alla Grecia per difendere la nostra comune moneta dalla speculazione". Una scelta che va nella direzione di "una difesa dei nostri risparmiatori, delle nostre famiglie, di tutti i cittadini''. Si tratta, spiega di una politica che parte dal "principio di aiutare il vicino quando la casa brucia" e, non solo, per la comune appartenenza all'Unione europea, "ma anche e soprattutto per evitare che l'incendio possa propagarsi alle case circostanti''.Il Cavaliere ha parlato poi della "fiducia che i mercati internazionali ripongono nel nostro Paese e nel suo governo". "I nostri titoli di stato hanno riscosso l'approvazione degli investitori non solo italiani, ma anche stranieri nell'asta di ieri mattina. La richiesta è stata addirittura più alta rispetto ai titoli che offrivamo: una richiesta di 12 miliardi e mezzo di euro contro i 7, 5 miliardi che abbiamo offerto". Un segnale importante a livello economico. "Credo che sia davvero un segno di assoluta tranquillita''', sottolinea il Cavaliere.


Replica poi a chi chiede un 'tagliando' del programma di governo.''Devo dire che, nella nostra azione di governo - dice -, sono proprio i cittadini a essere al centro dei nostri pensieri. A loro abbiamo sottoposto l'approvazione di un programma che è per noi un vero e proprio patto con gli elettori e la nuova moralità che abbiamo voluto introdurre nella politica consiste proprio in questo: nel considerare il programma un contratto stipulato con i cittadini e nel realizzare tutto ciò che è stato promesso''.


Quanto alle riforme, il premier ha detto che "si andrà avanti senza subire i rallentamenti, causati da controproducenti discussioni di palazzo". Tra i primi punti in agenda per il premier c'è la riforma della giustizia che, spiega, si farà "dalle fondamenta partendo dalle nove milioni di cause civili e penali ancora pendenti" per garantire ai cittadini processi più giusti in tempi certi. Torna poi sul tema delle intercettazioni. "Stiamo intervenendo - aggiunge - per impedire che un normale cittadino venga intercettato senza motivo per poi ritrovare la propria privacy infranta e resa di pubblico dominio sulle prime pagine dei giornali''. E poi a livello amministrativo. ''Stiamo intervenendo -insiste- per dare attuazione al federalismo fiscale che permetterà ai cittadini di controllare più da vicino la spesa pubblica e che dovrebbe anche portare a un contrasto più efficace nei confronti dell'evasione. Il governo continua inoltre a lavorare come mai nessun governo in precedenza per garantire la sicurezza dei cittadini e combattere le organizzazioni criminali. Tra l'altro come sapete, abbiamo catturato il numero uno della 'ndrangheta, che si aggiunge ai quasi cinquemila arresti eccellenti compiuti in questi due anni, con oltre cinquecento operazioni di polizia''.


Per quanto riguarda poi il futuro parla poi di una riduzione delle tasse. "Abbiamo davanti tre anni di lavoro - conclude - , ad esempio per semplificare e tagliare le migliaia di leggi del fisco italiano e varare finalmente un unico codice che permetta di ridurre ancora il peso delle tasse sui cittadini, non appena si consolideranno i segnali di questa ripresa economica''.

martedì 27 aprile 2010

Per risolvere presto la crisi greca ci vorrebbe una Margaret Thatcher


Il prestito biennale alla Grecia da parte degli stati membri dell’Unione europea di 30 miliardi di euro, al tasso del 5 per cento, sopra il livello del mercato di breve termine dell’euro, di un po’ più di 3 punti, cui si aggiungono verosimilmente 15 miliardi di euro del Fondo Monetario Internazionale probabilmente a un tasso un po’ inferiore, ha generato una riduzione immediata del costo per il finanziamento del debito pubblico della Grecia. Che per i titoli decennali aveva superato il 7,5 per cento e per quelli biennali era sopra il 6 per cento e ha ridotto sensibilmente il costo dell’assicurazione dal fallimento del debito greco.

Non è detto che la situazione si rassereni interamente, anzi è probabile il contrario. E molto dipenderà sia dalla capacità della Grecia di attuare un piano di stabilizzazione della sua finanza pubblica assieme a un riordino della sua politica economica e del mercato del lavoro, rivolti a dare flessibilità all’economia, sia dalla dinamica complessiva dell’area euro. Infatti se l’economia dell’Eurozona riprenderà vigore abbastanza presto, la questione del debito greco passerà in seconda linea e non si aprirà il dossier del debito portoghese.

Diversamente, le cose si potranno complicare di nuovo. Se la Germania o l’Unione europea adottassero un programma di investimenti pubblici capace di rianimare la domanda interna del mercato unico, il problema greco si risolverebbe molto meglio che mediante il mero ricorso della Grecia a un piano di austerità con flessibilità e manodopera a buon mercato, orientato al rilancio della sua economia mediante l’afflusso di capitali esteri e la crescita. In altre parole, la Grecia, essendo nell’Eurozona non può svalutare la sua moneta. Ma se è vero che uscendo da essa, la Grecia potrebbe risolvere gran parte di suoi problemi grazie a una svalutazione, è anche vero che questa avrebbe efficacia solo se si risolvesse nel taglio dei salari reali dell’economia e degli stipendi dei pubblici dipendenti. Quindi per la Grecia si tratta di adottare queste misure, senza la finzione della svalutazione. Certo, tutto sarebbe più facile se al posto del premier Papandreou ci fosse una signora Thatcher.

Qualcuno si chiede se le cose andrebbero diversamente, qualora esistesse una finanza pubblica della federazione europea. La risposta è che, ovviamente, se la Federazione sovvenzionasse la Grecia, il problema si risolverebbe. Ma per sovvenzionare la Grecia non c’è bisogno di dare vita al Leviatano fiscale di un nuovo livello di governo, lo potrebbero fare gli stati membri mediante un intervento coordinato.

Ciò che è di ostacolo a questa soluzione non è la mancanza di una finanza federale, ma il divieto al soccorso alle finanze pubbliche e parapubbliche di uno stato in difficoltà da parte della Commissione europea o degli stati membri dell’Unione, stabilito dal Trattato di Maastricht. In effetti l’articolo 104B, stabilisce che “la Commissione europea non risponde, né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali e locali o da altri enti pubblici, da altrui organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico”. E dopo aver posto questi veto alla Commissione europea aggiunge “Gli stati membri non sono responsabili né subentreranno agli impegni dell’amministrazione statale, degli enti regionali e locali o degli altri enti pubblici, di altri organismi di diritto pubblico o di imprese pubbliche, fatte salve le garanzie finanziarie specifiche”.

Il ricorso alla Corte di giustizia però non appare fondato, in quanto se è vero che il prestito alla Grecia viene fatto a condizioni inferiori a quelle che prevalevano sul mercato, al momento in cui è stato annunciato, è però vero che esso viene subordinato a condizioni che l’Unione europea pretende in base agli attuali poteri della Commissione europea sugli stati membri che si trovano nelle condizioni nell’articolo 104 C del Trattato, riguardante i “disavanzi pubblici eccessivi”, cioè quelli eccedenti il deficit del 3 per cento.

Le misure previste dall’articolo in questione arrivano sino alla richiesta di “un deposito infruttifero di importo adeguato presso la Comunità siano a quando il disavanzo eccessivo non sia stato corretto” e alla inflazione di “ammende di entità adeguata”. Il testo è chiaro. Si potrebbe fare un Fondo Monetario europeo basato sul principio dell’aiuto reciproco in caso di difficoltà, con le modalità che spiegherò meglio pià avanti, ma non si posso dare sovvenzioni agli stati in difficoltà per risolvere i problemi dei loro debiti e deficit eccessivi. Ciò che ora sta cominciando, è un esperimento di tipo nuovo, quello di un'unione monetaria fra stati membri di un mercato unico, che debbono operare senza questa rete di sicurezza e che, per giunta, hanno scarsi poteri di controllo sui comportamenti scorretti degli stati membri, con riguardo alle regolale di bilancio stabilite dal Trattato.

E alle prime battute appare evidente che l’esperimento funziona, peraltro con difficoltà a cui bisognerà porre rimedio escogitando nuove soluzioni, all’interno delle regole del Trattato. Secondo gli economisti, presuntamente liberali, ma cripto statalisti (che vanno per la maggiore), per gestire una Unione Monetaria in cui uno degli stati membri si trovi in difficoltà, con riguardo al suo debito pubblico, ci vorrebbe un governo federale. Ma, ripeto, ciò che manca non è il governo federale centrale, sono gli strumenti di collaborazione efficace fra stati membri. Sarebbe stato preferibile che esistesse già un Fondo Monetario Europeo che fosse in grado di effettuare questo tipo di interventi, dotato di proprie risorse finanziarie e di poteri propri, sulla base di procedure precostituite, analoghe a quelle del Fondo Monetario Internazionale.

Le difficoltà che si presenteranno nell'attuazione dello schema attuale, dimostreranno che è necessario pensare a tale Fondo. Ma tali difficoltà mostreranno che è ancor più necessario rivedere il funzionamento del patto di stabilità e crescita per prevenire situazioni come quella greca, dotando la Commissione di strumenti più incisivi di controllo e considerando non solo i parametri che emergono nella finanza pubblica, ma anche quelli che riguardano il rapporto fra la finanza pubblica, la macro economia e la bilancia dei pagamenti. Ciò per poter stabilire misure preventive più stringenti di quelle sin qui adottate, in relazione agli squilibri strutturali che emergono nella finanza pubblica dei singoli stati membri e che, in realtà, nascono dall’economia nel suo complesso, con particolare riguardo al mercato del lavoro, che genera una situazione di costi non competitivi e una disoccupazione anomala.

Prima della crisi internazionale scoppiata alla fine del 2007, in Grecia vi era un tasso di disoccupazione medio annuo del 10%, con un tasso di crescita del Pil superiore al 4% alimentati da un deficit di bilancia dei pagamenti correnti del 10% del Pil. Chiaramente, i salari erano troppo alti e c’era assieme mancanza di pieno impiego ed eccesso di domanda globale! Una situazione che a un economista keynesiano sembra inconcepibile e che dipende dal fatto che dato il cambio fisso, la variabile flessibile per il pieno impiego deve essere deve essere il salario, mentre per l’equilibrio della bilancia dei pagamenti occorre tagliare la domanda globale con una politica di bilancio tendente al quasi pareggio.

Alla sua crisi debitoria la Grecia è arrivata, invece, con un comportamento di politica fiscale e di bilancio spensierato, che fa capire come i controlli di Bruxelles sul suo comportamento siano stati inspiegabilmente omissivi. Già all’inizio del 2009 la situazione finanziaria della Grecia, ingolfata di debiti con l’estero, era molto precaria. Ma il governo uscente di centro destra di Nuova Democrazia, guidato da Costas Karamanlis, che ha lasciato il posto alla coalizione di sinistra guidata da Papandreu, durante la campagna elettorale del settembre 2009 non aveva rappresentato la drammaticità della situazione in cui la Grecia si trovava, a causa del rovesciamento del quadro finanziario internazionale che, d'improvviso, aveva determinato un'inversione dal flusso internazionale del credito da un regime di eccesso dell’offerta sulla domanda a uno di eccesso della domanda sull’offerta. E dal canto suo lo sfidante Georges Papandreu (figlio di Andreas e nipote di Georges, entrambi già presidenti del consiglio), alla guida di un governo del Pasok, il partito socialista greco, aveva promesso di risanare il Paese senza nessun ulteriore sacrificio da parte dei più deboli e della classe media. Il leader socialista aveva assicurato di voler rilanciare i consumi, l’economia e uno sviluppo verde, con un piano di spesa di 3 miliardi di euro pur riuscendo a proteggere salari e pensioni. Aveva anche promesso di finanziare il piano con una ridistribuzione fiscale e con una riduzione delle spese dello Stato.

Considerando che il Pil greco è di 230 miliardi di euro, i 3 miliardi di piano di rilancio di Papandreu erano lo 1,3 per cento del Pil . E tenendo presente che la Grecia aveva avuto negli anni precedenti un tasso di crescita medio del il del 4,5%, ma anche un tasso di inflazione del 4,2% nel 2008, con un deficit della bilancia dei pagamenti del 10% del Pil, e un deficit ufficiale di bilancio del 7.7% per il 2009, il programma di Papandreu era non solo demagogico, ma anche assurdamente irresponsabile.

E ciò anche a prescindere dal fatto che egli forse ignorava, che i conti pubblici greci erano truccati e che il vero deficit nel consuntivo annuale andava verso il 12,9 per cento. Fortunatamente, i numeri assoluti della crisi greca non sono gravi per l’Eurozona nel suo complesso, data la modesta dimensione della Grecia, per numero di abitanti e per Prodotto Interno Lordo: si tratta solo di 11 milioni di persone, a fronte dei 320 dell’Eurozona, ossia del 3,4 per cento. E nell’Eurozona c’è un complesso di stati membri, di circa 250 milioni di abitanti per i quali non si presenta un rischio per il debito pubblico, se continuano a tenere il comportamento prudente tenuto sino ad ora.

La Germania ha 83 milioni di abitanti, la Francia che con territori annessi ne ha 65, l’Italia che ne ha 60, Belgio, Olanda ed Austria ne hanno complessivamente 33. La percentuale della Grecia sul Pil dell’Eurozona è considerevolmente minore del 3,4% in quanto il Pil pro capite greco pre crisi di 28 mila dollari annui è molto minore di quello medio dell’Eurozona. Il Pil pro capite tedesco è di 40 mila, quello francese di 42, quello italiano di 35,5 , quello di Belgio, Olanda e Austria mediamente a 44. La media degli stati dell’Eurozona senza problemi di debito è sui 40 mila dollari e il Pil pro capite dell’Eurozona è di 38 mila dollari. Il Pil totale dell’Eurozona è di 12 .200 miliardi di dollari - la Grecia ha un Pil globale di 300 miliardi di dollari, cioè il 2,5% del Pil dell’Eurozona. Poiché il Pil greco in euro è di 230 miliardi e il suo debito pubblico è il 120 % del suo Pil, tale debito è attorno ai 275 miliardi di euro. La rete di sicurezza di 45 miliardi provvede al 16% di questo totale.

Con un debito decennale di 275 miliardi, ogni anno si debbono rinnovare mediamente 27 miliardi di titoli del debito pubblico. Ma poiché esso è cresciuto nel tempo, le scadenze annuali effettive sono forse di 23. Un deficit del 10% ne comporta altri 23. Ed ecco che la cifra di 45 miliardi fornita dal nuovo prestito potrà bastare alla Grecia come rete di sicurezza per quest’anno e per l’anno prossimo. E se essa saprà dosare con prudenza l’impiego di tale rete di sicurezza, potrà anche evitare di fruirne per intero. E’ un'ipotesi di non facile realizzo, ma non impossibile.

Ciò che sino ad ora ha giocato a sfavore della credibilità del debito pubblico greco è stata la spensieratezza con cui Atene è giunta a questa situazione. Le misure decise dal governo di Papanderu, quando la verità si è scoperta e la situazione debitoria della Grecia è cominciata ad apparire drammatica, dovrebbero riportare il defict del bilancio del 2010 al 9 per cento. Il governo, inoltre, si è impegnato ad avere un deficit del 3 per cento entro il 2013. Sulla carta, posto che il Pil rimanga invariato, ciò potrebbe non essere impossibile, dato che la pressione fiscale greca è solo il 37% del Pil mentre le spese rasentano il 50%. Ma, per evitare la caduta del Pil, ci vuole un programma eroico, relativo ai costi del lavoro, che solo mediante una forte pressione sul governo greco può essere possibile ottenere.

Considerando tutto ciò detto, appare chiaro perché l‘opinione pubblica tedesca fosse contraria all’intervento alla Grecia a carico del contribuente. La Germania in effetti dovrà accollarsi il 28% del sostegno finanziario alla Grecia, con un apporto di 8,4 miliardi di euro. E la tesi per cui la Grecia non li utilizzerà interamente appare poco credibile, dato quanto si è appena osservato.

Il cancellate tedesco Angela Merkel d’altra parte aveva assicurato che un eventuale prestito alla Grecia fosse fatto “a condizioni di mercato” e poiché esso è stato fissato a un livello del 5%, inferiore di forse 2 punti a quello di mercato, per i prestiti biennali greci, si è sentita tradita. E un gruppo di economisti e giuristi sta preparando un ricorso alla Alta Corte di Giustizia europea, sostenendo che si tratta di un aiuto contrario al Trattato di Maastricht , che fa parte integrante delle regole dell’Unione europea.

Si può discutere dell'efficacia operativa delle misure con cui la Commissione europea può condizionare l’erogazione del prestito e sanzionare la Grecia, ma non si può negare che esse consentono di affermare che un prestito al 5% non è una sovvenzione, vietata dal trattato di Mastricht. Ciò anche perché si tratta di un prestito inferiore ai livelli richiesti dal mercato al governo greco, ma molto superiore ai livelli a cui i governi degli stati dell’Eurozona, non considerati attualmente a rischio, si finanziano sul mercato del debito pubblico. Sicché essi con il sostegno finanziario alla Grecia potranno realizzare una plusvalenza.

Occorre aggiungere che non solo la Grecia ha aspettato troppo a varare il suo piano di austerità che consiste nel congelamento degli stipendi dei dipendenti pubblici e in aumenti fiscali, e nel chiedere il sostegno dell’Unione europea. Hanno tardato troppo anche gli stati membri, con riguardo alla creazione di un Fondo Monetario Europeo, che, come si desume dalla lettura dell’articolo 104 B del Trattato di Maastricht è ammissibile, nel quadro delle “garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico”. Infatti il Fondo Monetario Europeo si potrebbe finanziarie sul mercato, avvalendosi delle garanzie finanziarie specifiche precostituite degli stati membri e della Commissione europea, che potrebbero essere commisurate alle quote azionarie di ciascuno stato membro nel Fondo stesso, a loro volta parametrate su quelle di partecipazione alla Banca centrale europea.

C’è da augurarsi che da questo episodio nasca la volontà politica di dare vita a tale Fondo. Ma, paradossalmente, se l’intervento deciso in aprile avrà successo il proposito di dar vita al Fondo potrebbe essere accantonato.

Una cosa analoga sembra accadere con riguardo alla revisione delle regole riguardanti gli intermediari finanziaria non bancari: ora che il peggio è passato, al più si arriverà a una imposta sulle loro operazioni come surrogato della regolamentazione.

sabato 17 aprile 2010

Berlusconi: il governo va avanti anche se non ci ricompatteremo

Il premier dopo l'invito-ultimatum a Fini. «Le riforme costituzionali non sono le più importanti»

MILANO - Il giorno dopo l'invito-ultimatum a Fini, il presidente del Consiglio torna a ribadire la sua posizione: «Il governo va avanti anche se non ci ricompatteremo».
«La maggioranza resisterà, il Governo continuerà, sono cose superabili» ha detto il premier a proposito della querelle all'interno del Pdl. «Penso che si possa ricompattare - ha aggiunto - ma in qualunque direzione si vada non ci saranno problemi. State sereni».

LA CORTE - «Ho fatto la corte anche a Fini questa settimana». Silvio Berlusconi non vede l'ora di tornare a scherzare dopo essere stato al funerale di Raimondo Vianello. Così rivolto agli imprenditori riuniti al Salone del Mobile di Milano (dove è stato accolto da un'ovazione), sui suoi rapporti con il presidente della Camera, Gianfranco Fini svela: «È da 15 anni che lo conosco -ha continuato Berlusconi- ma com'è che adesso non andiamo d'accordo?».

LE RIFORME - Riguardo al capitolo riforme Berlusconi spiega: «Quelle costituzionali non sono le più importanti. La riforma costituzionale è qualcosa a cui vale la pena di lavorare». Poi ha detto che si farà «sentendo tutti» e possibilmente «con l'assenso di una opposizione responsabile, se diventerà responsabile». Servirà a dare allo Stato «un assetto più moderno» permettendo di «prendere decisioni con la necessaria tempestività». Secondo Berlusconi, dopo aver dato la possibilità all'elettorato di votare direttamente il loro sindaco e presidente di Regione, «poter scegliere anche il presidente dell'Italia credo sia un diritto in più per i cittadini». Il sistema delineato dalla Costituzione «risente del fatto che i padri costituzionali l'abbiano fatta dopo venti anni di dittatura ed avevano timore del ritorno di un regime e tutti i poteri sono stati dati all'assemblea parlamentare». La conseguenza, per il premier, è che quello italiano «è l'esecutivo con meno poteri al mondo». Il presidente del Consiglio «è un primus inter pares - ha concluso - vive solo della sua personale autorevolezza e infatti gli altri sono durati 11 mesi».

INTERCETTAZIONI - Poi il premier ha parlato delle nuove norme sulle intercettazioni «Credo che sia una guerra santa che stiamo combattendo». Serviranno solo per reati gravi non «per cercare notizie di reato», ha spiegato, ma nel caso in cui ci siano «già gravi indizi di colpevolezza».

FISCO - «Nel giro di due anni realizzeremo un codice unico in materia fiscale per eliminare le migliaia di leggi che oggi creano troppa confusione». «A causa di questa situazione - ha detto il premier - anche aziende che si fanno assistere da studi fiscali di primo piano si trovano ad essere oggetto delle attenzioni dell'Agenzia delle Entrate e magari a subire un giudizio anche quando erano convinti di non aver commesso reati». Berlusconi ha anche preso l'impegno preciso di ridurre le tasse «appena i conti pubblici saranno a posto». «La prima cosa che faremo - ha detto - sarà pensare alle famiglie numerose e la seconda l'abolizione dell'Irap che io chiamo imposta rapina».

LA BATTUTA - Infine si è rivolto alla platea dei mobilieri: «Io sono venuto qui per il pranzo, ma qualcuna delle hostess la invitate o no?». «Questi - ha proseguito Berlusconi - non sono peccati. Non commettere atti impuri, è scritto. Tutto il resto è permesso». «Vedete - ha proseguito Berlusconi - è questa la differenza tra noi e quegli altri. Il loro problema è che sono sempre arrabbiati, che non hanno autoironia, mentre qualche storiella ti pulisce la mente, ti apre al sorriso».

Il vero motivo della frattura: Gianfranco vuole più poltrone

RomaSolo, a rosolare al piano nobile della Camera, Fini ha deciso di minacciare lo strappo. Le vere motivazioni tuttavia non sono il partito caserma, lo strapotere della Lega, la generazione Balotelli, il voto agli immigrati, gli innamoramenti delle coppie di fatto o i temi etici ma la consapevolezza di una sua lenta e inesorabile perdita di potere personale.
Poco prima della fusione nel Pdl si stabilirono le quote del 70 e 30 per cento. Ma il 30 per cento ex aennino oggi fa più riferimento a Berlusconi che non a Fini. Il quale s’è visto perso, emarginato, destinato a fare il neo Bertinotti, cioè a sparire. Non contare, non avere peso, non controllare più gli ex «suoi»: ecco l’incubo di Gianfranco. Non comanda nel partito, non influenza il governo, non riesce a esser un faro neppure in periferia visto che persino la neo governatrice del Lazio, Renata Polverini, per sciogliere i nodi della composizione della sua giunta è corsa a Palazzo Grazioli e non a Montecitorio. Non conquista neppure le masse o le massaie un tempo attratte dal «come parla bene a braccio quello lì». Una sorta di burattinaio che, nel teatrino della politica, s’è accorto di avere in mano sempre meno fili da muovere. Un’emorragia di potere logorante, implacabile, iniziata ben prima della fusione pidiellina, cui sta cercando di porre rimedio con la consueta tattica dello strappo, a lui congeniale.
Nella sua personalissima strategia per non affogare definitivamente, l’eterno delfino nuota ma assieme ad un branco decisamente piccolo. Accanto a lui non ci sono più i pesci grossi che ora sguazzano a loro agio nel nuovo grande acquario del Pdl. Non va nella stessa direzione di Gianfranco il ministro della Difesa Ignazio La Russa, «berluscones» della prima ora, pontiere e pompiere di professione, che ha sempre sudato sette camicie per evitare la separazione tra Fini e Berlusconi. Stesso discorso per il capo dei senatori Pdl Maurizio Gasparri e per il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli che ha già fatto sapere di non voler seguire l’ex pupillo di Almirante. Ma neppure Alemanno e gli alemanniani se la sentono di spalleggiare l’ex capo e, anzi, il sindaco di Roma ieri s’è speso tantissimo per scongiurare il divorzio da Silvio. Scettico pure il ministro della Gioventù Giorgia Meloni, fortemente voluta al ministero proprio da Fini. E persino la Polverini, la candidata inizialmente sponsorizzata da Fini, ha più volte dimostrato di essere maggiormente grata al Cavaliere che non al presidente della Camera: se infatti l’ex sindacalista siede sulla poltrona che fu di Marrazzo lo deve soprattutto alla forsennata campagna elettorale del premier e non certo all’ex capo di An.
Così, il generale Fini è rimasto isolato, appartato, privo dei vecchi «colonnelli», se si esclude una schiera di fedelissimi che vanno dal vicepresidente dei deputati Italo Bocchino al ministro per le Politiche Ue Andrea Ronchi passando per il sottosegretario Adolfo Urso. In mezzo vecchi amici come Donato Lamorte e Carmelo Briguglio e nuovi sostenitori come Giulia Bongiorno, Luca Barbareschi, Alessandro Rubens, Fabio Granata e Flavia Perina. Poi la schiera di intellettuali riuniti attorno alla fondazione Farefuturo come Alessandro Campi e Angelo Mellone. Pure le antiche correnti post-missine non ci sono più, squagliate all’interno del Pdl meglio del loro capo. Negli anni Fini ha pure perso controllo e feeling con le sacche del suo elettorato storico: sia quello nostalgico, sia quello cattolico, sia quello del law and order, sia quello che chiedeva il pugno duro contro l’immigrazione.
È rimasto ben poco a Fini: c’è il quotidiano Secolo d’Italia, guidato dalla fedele Perina; ci sono i teorici del neofinismo in salsa antiberlusconiana raccolti nel think tank Farefuturo; c’è il laboratorio politico di Generazione Italia, associazione lanciata da Fini in alternativa ai Promotori della Libertà voluti da Berlusconi e la Fondazione Alleanza nazionale, presieduta da Donato Lamorte che conserva l’archivio di An e ha in gestione il patrimonio immobiliare del vecchio partito. Un giornale, una fondazione, un laboratorio politico. Stop.

Fonte Il giornale sabato 17 aprile 2010

venerdì 9 aprile 2010

Fisco, Tremonti : "Sarà una riforma ad alta intensità politica, non facile ma necessaria"


Il ministro dell'Economia assicura: "Non sarà platonica. E il federalismo fiscale permettera' di dire basta a quel meccanismo per cui i poveri delle regioni ricche finanziano i ricchi ladri delle regioni povere". Ribadita la linea di rigore: "Governare facendo debito pubblico e' piu' facile che governare avendo debito pubblico. Ma non e' più saggio"

"La riforma fiscale non sara' una riforma platonica. Sara' invece una riforma ad alta intensita' politica. Non sara' facile ma e' necessaria". E' il ministro dell'economia, Giulio Tremonti, a ribadire cosi' la volonta' del governo di mettere mano al sistema fiscale. "Nel quadrante dell'economia, la riforma delle riforme e' la riforma fiscale", conclude.

E la riforma e' considerata da Tremonti "un appuntamento da cui non poter sfuggire". Per questo, dice ancora, per prima cosa sara' riaperto il cantiere del Libro Bianco del '94 "per un inventario responsabile e trasparente delle varie opzioni possibili" e si muovera' lungo le direttrici conosciute. "dalle persone alle cose, dal complesso al semoplice e dal centro alla periferia". Le riforme, d'altra parte, "sono una necessita' storica anche senza la crisi".

Oltertutto, per Tremonti il federalismo fiscale sarà lo strumento che "permettera' di dire basta a quel meccanismo per cui i poveri delle regioni ricche finanziano i ricchi ladri delle regioni povere".

Parlando durante il suo intervento dei conti pubblici, il ministro ha difeso nuovamente la sua politica di rigore: "E' difficile essere i primi sul Pil se si e' primi sul debito. Governare facendo debito pubblico e' piu' facile che governare avendo debito pubblico. Ma non e' piu' saggio. La storia insegna che il debito nazionale non fa lo sviluppo ma lo divora. Non fa la fortuna ma la sfortuna degli Stati", aggiunge ricordando le scelte compiute negli anni '70 "quando si scambio' il presente con il futuro, decidendo di divorare il futuro creando debito pubblico". La stessa scelta fatta oggi "da tanti altri paesi nel mondo e nell'Europa ma che l'Italia non ha scelto". E questo perche', scandisce, "non si poteva, perche' non si voleva e perche' non si vuole", aggiunge ricordando come "per la prima volta la velocita' di crescita del deficit e del debito pubblico e' inferiore alla media europea".

Quello che auspica Tremonti, infine, è che "alcuni Paesi grandi dimostrino di essere anche grandi Paesi. Tra questi c'e' stata e c'e' l'Italia, quello che manca sono altri Paesi che sono Paesi grandi ma non grandi Paesi. Nessuno, pero' si illuda di potersi salvare solo perche' ha in tasca il biglietto di prima classe. O tutti o nessuno".

ADNKRONOS Sabato 10 Aprile 2010

mercoledì 7 aprile 2010

Riforme, Lega consegna al Colle le linee guida: Napolitano: "Necessaria una larga condivisione"


Roma - Sono solo poche pagine, ancora generiche, ma i capitoli sono già ben delineati: semipresidenzialismo alla francese, Senato federale, riduzione dei parlamentari, nuovo meccanismo per l’elezione dei membri della Consulta. Il percorso delle riforme si è appena avviato, ma già oggi - a quanto riferiscono fonti della maggioranza - Roberto Calderoli ha potuto portare un primo documento all’attenzione del Presidente della Repubblica.

Le linee guida delle riforme Le "linee guida" sono il frutto di un giro d’orizzonte chiesto da Silvio Berlusconi al ministro leghista un mesetto fa, in cui si valutano diverse ipotesi di riforma, ma che già indicano la direzione verso cui intende muoversi la maggioranza. Secondo quanto riferito da chi ha potuto vederle, la forma di governo dovrebbe virare verso il semipresidenzialismo alla francese, già "corretto" con la modifica recentemente apportata in Francia per evitare la coabitazione di un presidente e un premier di appartenenze politiche contrapposte: ovvero sia il Presidente che il premier restano in carica 5 anni, e il capo dell’Esecutivo è eletto un mese dopo le presidenziali; il bicameralismo perfetto scomparirebbe dal panorama istituzionale per lasciare il posto alla Camera che dà la fiducia al Governo e al Senato federale con altri compiti, portandosi assieme la riduzione del numero dei parlamentari. Per gli attuali senatori a vita, ci sarebbe invece il passaggio a "deputati a vita": carica che però dovrebbe spettare solo ai Presidenti emeriti, che durante il loro mandato non avrebbero più il potere di nominare altri membri a vita del Parlamento.

Corte Costituziunale Con il semipresidenzialismo cambierebbe anche il meccanismo di nomina dei membri della Corte Costituzionale: il "nuovo" Presidente, con i poteri rafforzati, perderebbe il potere di indicare un terzo dei componenti, che a quel punto sarebbero indicati - sempre per un terzo - dai Presidenti delle Camere. Gli altri due terzi resterebbero di competenza per metà del Parlamento in seduta comune, per l’altra metà delle supreme magistrature. Ma per ora, precisano fonti di maggioranza, si tratta solo di un "giro d’orizzonte", senza indicazioni vincolanti.

Confronto con l'opposizione La "road map" stabilita ieri nella cena di Arcore si compone infatti di diversi passaggi. In primo luogo l’accordo nella maggioranza su un testo più dettagliato, attraverso il ’tavolo dei coordinatori dei partitì. In seguito si avvierebbe il confronto con i gruppi parlamentari, compresi quelli di opposizione: un lavoro che il Governo e la maggioranza si dicono pronti a fare con la disponibilità anche a modifiche, secondo lo stesso metodo portato avanti da Calderoli per il federalismo fiscale. Solo a quel punto, il testo dovrebbe concretizzarsi in un disegno di legge del Governo.

Napolitano: "Ci sia larga condivisione" In relazione all’incontro, svoltosi stamattina al Quirinale, del Presidente della Repubblica col Ministro Calderoli, si precisa che esso è stato dedicato all’esposizione da parte del Ministro degli orientamenti generali in discussione nel Governo e nella maggioranza in materia di riforme istituzionali. A conclusione dell’incontro - si legge in una nota del Quirinale - il Ministro ha consegnato al Presidente una prima bozza di lavoro; non poteva esservi e non vi è stato alcun esame dei suoi specifici contenuti. Il Presidente della Repubblica ha ricordato e ribadito i punti di vista da lui ripetutamente espressi circa la necessità e le possibilità di ricerca della più larga condivisione in Parlamento delle scelte da compiere in questo campo di speciale complessità e delicatezza.

Il Giornale Mercoledi' 07 aprile 2010

martedì 6 aprile 2010

Pdl lavora a bozza, Lega lancia semipresidenzialismo


Lega lancia semipresidenzialismo. Cena di lavoro per Berlusconi e Bossi ad Arcore


ROMA - Riparte dal 2 dicembre scorso il lavoro del Pdl per arrivare a un testo di riforma costituzionale da proporre in Parlamento e provare a condividere con l'opposizione, mentre al paniere delle riforme si aggiunge anche il tema del semipresidenzialismo proposto dalla Lega su cui concordano i finiani ma non tutte le anime del Pdl. In quella data Pdl-Lega e Pd-Udc presentarono e votarono, con parere favorevole del ministro Roberto Calderoli per il governo, al Senato due mozioni ampiamente convergenti sulle riforme costituzionali. Non fu possibile fare una mozione comune di maggioranza a opposizione per un soffio, perché la maggioranza inserì nel testo anche un riferimento alla riforma della giustizia. I due testi erano comunque perfettamente sovrapponibili almeno su due punti: riduzione del numero dei parlamentari e fine del bicameralismo perfetto con la creazione di un Senato federale, eletto direttamente dai consigli regionali. Due punti dai quali il Pdl intende ripartire.

Il resto della cornice, è però, tutto da costruire. Compresa la misura del taglio dei parlamentari che, secondo la 'bozza Violante' verrebbero ridotti a 500 deputati (più 12 eletti all'estero) e 250 senatori. In ogni caso da lì riprenderà il Pdl per avanzare la propria proposta della quale si parlerà anche domani all'ufficio di presidenza. Il presidente della Consulta per le Riforme del partito, Carlo Vizzini, è già al lavoro per la fase istruttoria. Proporrà infatti al partito un dossier su tutte le proposte presenti sia alla Camera che al Senato di riforma costituzionale, sia di maggioranza che di opposizione. Il dossier verrà proposto al partito e poi verranno sentiti i capigruppo per ragionare sulla possibilità di una proposta parlamentare del Pdl. Cosa che non precluderebbe comunque una proposta governativa. Nel testo del Pdl potrebbe entrare anche il rafforzamento dei poteri dell'esecutivo, tema richiamato nella mozione di Popolo della libertà e Lega nell'ambito di un ripensamento della forma di governo, anche se non è chiaro se la proposta possa essere quella del semipresidenzialismo ipotizzata oggi dal Carroccio. Sembra escluso almeno per il momento che all'interno del dibattito possa entrare anche la riforma della legge elettorale come chiesto a gran voce dal Pd. Si tratta infatti, si sottolinea dalla maggioranza, di un argomento che va affrontato alla fine di un percorso, anche perché prima è necessario capire a quale tipo di struttura istituzionale si sta pensando.

Inoltre una modifica della legge elettorale risulta generalmente delegittimante per un Parlamento eletto con un altro modello di voto ed è in ogni caso una riforma che, essendo fatta per via ordinaria, porta via molto meno tempo rispetto a una modifica costituzionale. Una cosa appare, tra l'altro, decisa: le riforme istituzionali partiranno dal Senato. Su questo c'era stato un gentlemen agreement tra i presidenti delle Camere visto che Palazzo Madama è il ramo del Parlamento certamente più toccato dalle modifiche che si prospettano dell'assetto istituzionale. Nel frattempo nelle due commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato prenderà a breve il via anche un'indagine conoscitiva sulla riforma della seconda parte della Costituzione.

domenica 4 aprile 2010

Italia, è Pasqua: torna a vivere

Cari amici lettori di questo blog,l'aritcolo che leggerete di seguito,(tratto da Il Giornale)e'una critica costruttiva che a me e' piaciuta molto e che vi invito a leggere,perche' ritengo contenga molti punti in cui tutti noi elettori del pdl o lega che siate ci si possa ritrovare.
Prima pero' dell'articolo spero mi vogliate consentire alcune riflessioni sui fatti accaduti nelle ultime settimane;

Allora partiamo dalle elezioni regionali. Come e' ormai chiaro a tutti e che e' confermato dai numeri la vittoria nelle sei regioni conquistate dal centrodestra in questa tornata elettorale piu'quelle conquistate nell'ultimo anno(vedi Sicilia,Sardenia Abruzzo)potranno consentire al governo,speriamo finalmente un buon accordo sul piano casa. Inoltre, come annunciato dal presidente Berlusconi si potranno far decollare e portare a compimento le riforme,alcune gia' in cantiere, vedi la riforma della giustizia,oppure quella federalista su cui la lega preme molto e aggiungo giustamente su cui credo che si potra' trovare l'accordo con l'opposizione o almeno su una parte di esso.
Come tutti sappiamo i prossimi tre' anni saranno senza elezioni di grande rilevanza ed e' per questo che la via delle riforme va perseguita senza indugi e inciuci vari,pena la disaffezione di noi tutti verso questo governo in cui tutti noi crediamo.

Altro punto in cui in questi giorni si discute molto e di cui sto'parlando e discutendo molto sui miei gruppi su facebook (vedi gruppo Governo Berlusconi: IL POPOLO RICONOSCE IL BUON GOVERNO all'argomento di discussione Pillola abortiva ru486, come la pensiamo? )sono le QUESTIONI ETICHE ed in particolare la questione riguardante la pillola abortiva ru486.Le posizioni sono abbastanza note; da un lato il centrosinistra nelle regioni da loro governate anno dato il via all'utilizzo di questo farmaco,mentre invece nelle regioni a guida azzurra si sta' tentando di ritardarne l'utilizzo. Ma da dove nasce questa controversia;come tutti o quasi sappiamo la ru486 e' un medicinale che induce l'aborto ede' stata progettata per evitare alla donna l'asportazione del feto indesiderato via chirurgica.Il problema nasce dal fatto che per utilizzare questa pillola non sia necessario il ricovero precauzionale della donna che la utilizza.
Secondo i critici di questa pillola l'utilizzo libero senza uncontrollo medico e' pericoloso perche' nel caso di un malore della donna che lo usa non ci sarebbe un medico che puo' gestire la situazione. Secondo gli avvontori invece obbligare la donna al ricovero va contro la libera scelta della medesima in quanto non e' necessario il ricovero e l'obbligatorieta' del ricovero andrebbe contro i principi di libera scelta della paziente.
Come ho gia' avuto modo di scrivere nel mio gruppo di facebook nel link da me postato precedentemente, la mia contrarieta' a questa pillola a due motivi; il primo e' etico e cioe' sono contrario all'aborto in tutte le sue forme ( chimica via pillola o chirurgico) pur se tutelato da una legge,perche' lo ritengo un'omicidio; esistono possibilita' alternative per le donne che non vogliono tenere il bambino/a e cioe' il non riconoscerla/o all'atto della nascita e quindi come prescrive la legge attivare le procedure di adozione. Altro modo sono i metodi contraccettivi dai piu' semplici (pillola per la donna,preservativo per l'uomo)chee vitano cosi' di mettere al mondo creature non volute.
Ultimo punto su cui mi voglio dedicare e' la questione dei preti pedofili;diro' solo poche parole che spero non offendano nessun cattolico che leggera' questa nota;io credo personalmente che la chiesa abbia sbagliato in passato a nascondere gli scandali ma soprattutto io credo che questi cosiddetti preti vadano immediatamente espulsi e consegnati alle autorita' di quei paesi perche' vengano processati e perche' personalmente credo che tutti i pedofili siano uguali sia che siano religiosi sia che siano laici ed e' assolutamente necessario fermarli per il bene delle vittime e per il bene stesso della chiesa. Se questo accadra'ne beneficiera' dapprima la ciesa perche' si sara' dimostrata capace di fare pulizia al suo interno e dimostrera' di non tollerare questi comportamenti.

Ora vi lascio alla lettura dell'articolo di Marcello Veneziani, attendo pero' qui' sul blog i vostri commenti e le vostre osservazioni.

Grazie Luca Marinoni

Italia, è Pasqua: torna a vivere
di Marcello Veneziani IL Giornale domenica 04 aprile 2010


La Pasqua d’Italia. La traduzione storica di Resurrezione è Risorgimento. E questo Paese ha bisogno davvero di riacquistare fiducia in un suo risorgimento. Ha bisogno di ritrovare una sua unità di destino, un suo disegno civile e culturale e i tre anni di tregua elettorale che abbiamo davanti, la forte maggioranza del governo e la necessità di tutti i partiti di andare in clinica per un check-up radicale, sono condizioni favorevoli per la ripresa. L’Italia ha bisogno di sentirsi comunità, come dice agli inglesi il leader conservatore Cameron, che sarà tra breve probabilmente il nuovo premier britannico. Laddove partì la rivoluzione liberista della Thatcher potrebbe ripartire per l’Europa la rivoluzione conservatrice, animata dall’idea di comunità, di mercato sociale e di tradizione.
L’occasione può essere il compleanno dell’Italia, i suoi 150 anni che scoccheranno il marzo prossimo. Quell’anniversario può essere il pretesto per rilanciare un progetto d’italianità con i mezzi del presente. Un progetto pop, per intenderci, come la pop music e la pop art, abbreviativo di popolare. Qualcuno, nella cabina di regia dei 150 anni, ha tentato di spostare l’attenzione dei festeggiamenti sul solito secondo risorgimento, ovvero la guerra civile del ’43. Ma di Novecento abbiamo fatto overdose, mentre il Risorgimento non si studia più neanche a scuola, dopo la riforma Berlinguer. Dobbiamo invece ripartire dall’Unità, che è più attuale della guerra civile. Se oggi, per esempio, discutiamo di federalismo e di Stato centrale, o di Nord e Sud, quei temi non ricalcano la lotta antifascismo-fascismo, ma ci riportano all’atto costitutivo del Paese, al Risorgimento. Dobbiamo ripensare quell’Unità e non la Resistenza, dobbiamo tornare al territorio e non al secolo delle ideologie.
Ma per partire col piede giusto, bisogna partire dalla realtà: l’Italia è in decadenza, il popolo italiano vive lo scoramento, gli italiani sono in fuga dal proprio Paese anche quando restano a casa. È una forma di emigrazione mentale, che è perfino peggio dell’emigrazione reale, perché li situa fuori dal proprio Paese, con la testa rivolta in un imprecisato altrove. C’è uno scoramento diffuso come una dolente tiritera. È inutile negarlo o attribuirlo solo ad un sordo gioco mediatico e ideologico che vuol gettare fango su questa precisa Italia, sotto questa guida. La propaganda c’è, l’uso fazioso del malessere pure, figuriamoci; ma il disagio non è pura invenzione per denigrare. C’è, si tocca con mano. Se fingiamo che non esista, poi non capiamo il resto. Dobbiamo avere la cruda franchezza di ammettere che il Paese è effettivamente sulla china del degrado, è spompato, è scorato.
La decadenza c’è e viene avvertita come tale. Ma non è onesto, non è veritiero, ricondurre la decadenza italiana a chi ci governa in questa fase. Primo, perché un governo non avrebbe la forza, seppur nefasta, di innescare un processo così profondo, vasto e radicale. Secondo, perché la decadenza italiana è frutto di un processo lungo e corrosivo, che a voler circoscrivere la portata alle presenti generazioni, fu innescato tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Terzo, perché il disagio economico e sociale, aggravato negli ultimi anni, ha avuto nelle crisi internazionali e finanziarie, la sua ragione principale.
Quando Berlusconi promette grandi opere e grandi mutamenti strutturali, quando lancia la cultura del fare e la cultura dell’emergenza per consentire decisioni rapide e fattive, senza le estenuanti mediazioni che neutralizzano di solito l’efficacia, tenta di rispondere a questa inerzia diffusa, a questa inedia profonda, a questa accidia serpeggiante. Quando Berlusconi tenta iniezioni di fiducia nel Paese, invitando a sperare, a convincersi che il peggio sia passato, che il Paese ora sia in risalita, non dice tutta la verità ma cerca, con una santa bugia, di rincuorare il Paese e ridare fiato all’Italia. Tenta di reagire alla decadenza, rianimando un discorso pubblico. Perlomeno c’è uno sforzo a uscire dalla palude e dal deserto. E non è colpa della Lega se poi non c’è nessuno che con pari determinazione difenda l’identità nazionale e compensi le tentazioni autonomiste. Manca però un disegno generale del Paese, un progetto culturale e civile e vorrei dire ideale, salvo annunci, placebo, illusioni. Certo, la cultura dell’emergenza rischia poi di produrre procedure sventate, prive di controlli, che sono il pane preferito per i comitati di affari, i corrotti e i corruttori. Ma l’unico modo per smuovere le montagne, per snellire le procedure, sveltire la sostanza dei processi di ricostruzione era quello. E si è visto, a Napoli come all’Aquila.
Allora il problema del nostro Paese non si chiama Berlusconi. Si chiama decadenza. Si chiama sfiducia generale. Si chiama democrazia irresponsabile, dove manca ogni pur vago tentativo di pensare in senso nazionale; dove le carriere sorgono sulle ceneri dell’Italia e non sulla crescita italiana. Si chiama mancanza di selezione, di meritocrazia, per consentire l’elezione di classi dirigenti adeguate, la circolazione dei talenti, il dinamismo dei settori più strategici, come la ricerca, l’università, la burocrazia.
Sarebbe troppo facile pensare che questo Paese, liberandosi di Berlusconi e del suo governo, si liberi della decadenza. Non è onesto, non è veritiero pensare che questo Paese tornerà a fiorire se alla monarchia berlusconiana si sostituirà quel ceto di tirapiedi che armeggiano contro di lui, ma a volte anche nei suoi pressi. Quel ceto è la fotografia più deprimente della partitocrazia, dell’incapacità delle classi dirigenti, della mancata selezione sulla base dei meriti. Non è di manette che ha bisogno l’Italia, non di leggi del sospetto; ma di aria libera e intelligenze costruttive, non mirate a frenare il prossimo ma a guidare la rinascita d’Italia. Insomma, dopo il voto, tocca ripartire dalla decadenza italiana per ripensare il futuro del Paese. Buona Pasqua di Resurrezione, Italia.

Lauree, squilibrio domanda-offerta:mancano medici, infermieri e ingegneri


Esuberi nel settore umanistico, carenza nelle specializzazioni tecniche

ROMA (3 aprile) - Abbiamo frotte di giovani laureati che non trovano lavoro, ma allo stesso tempo aziende che cercano laureati pressoché introvabili. E’ questo uno dei tanti paradossi italiani, che pesa sulle spalle di una generazione che fatica a farsi strada.

Colpa degli errori di programmazione, delle lauree facili e di quel sistema universitario che invece di premiare il merito ha preferito fare cassa con gli immatricolati, non importa quali. Ma ora i nodi vengono al pettine. «C’è uno squilibrio tra domanda e offerta di laureati, con un esubero nel settore politico-sociale, psicologico, letterario, linguistico e biologico. Resta insoddisfatta, invece, la domanda nei settori economico-statistico, sanitario e ingegneristico, che ancora promettono sbocchi.

Mentre la disoccupazione giovanile cresce, ci sono aziende che cercano laureati introvabili. Quali le figure carenti sul mercato? In testa ci sono gli infermieri, i fisioterapisti e gli addetti alla meccanica e all’elettronica», la denuncia è di Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria.
«Faccio un esempio - continua Gentili - che riguarda gli ingegneri: prima della crisi ne mancavano all’appello 31mila, ora siamo scesi a quota 13mila. Significa che, nonostante il calo di richieste causato dalla congiuntura economica, gli ingegneri che escono dalle nostre facoltà sono ancora pochi e non soddisfano le necessità del mercato. Pochi mesi fa avevamo lanciato un appello sulle carenze numeriche dei diplomati nel settore meccanico ed elettronico, che ha 76mila posti scoperti».

Che cosa sta accedendo? Ci sono gravi carenze di programmazione. «Ecco perché - sottolinea l’esperto di Confindustria - in Italia sono più penalizzati i giovani, con percentuali di disoccupazione che hanno toccato il 28%, mentre per gli adulti la disoccupazione si mantiene sotto l’8% (tanto che stiamo meglio di altri Paesi europei, che hanno la media del 9%)».

«Dovremmo migliorare le politiche di orientamento e la programmazione delle lauree - ammette Franco Cuccurullo, rettore di Chieti e presidente del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario - In medicina, per esempio, nel prossimo quinquennio mancheranno laureati: per motivi anagrafici ci sarà l’uscita di interi contingenti. Negli Anni Settanta c’era stato il boom di iscrizioni, poi, per non creare medici disoccupati, abbiamo istituito il numero programmato. Ma dal prossimo anno il ministero dovrà rivedere le “quote” e aumentare il numero delle matricole». Diversamente, dovremo importare medici dai Paesi stranieri, come già accade in Gran Bretagna.

L’ultimo Rapporto di Almalaurea, il Consorzio di 60 università, pochi giorni fa ha reso noti i dati raccolti tra 210mila giovani. A un anno dal conseguimento del titolo le cifre sono preoccupanti: tra i laureati triennali la disoccupazione è passata dal 16,5 al 22%; tra coloro i quali hanno il titolo “magistrale” il balzo è stato dal 14 al 21% e tra gli specialistici a ciclo unico (medici, architetti, veterinari, ecc.) l’incremento è stato dal 9 al 15%. Secondo Almalaurea “le difficoltà di assorbimento nel mercato del lavoro” riguardano un po’ tutti i settori.
Ma quali sono le lauree che più di altre potrebbero dare lavoro? «In testa le lauree del settore sanitario e ingegneristico, oltre a quello economico-statistico - spiega ancora Gentili della Confindustria - In particolare sono appetibili le lauree medico-sanitarie, a cominciare dal ramo infermieristico: dalla fisioterapia alle tecniche legate alla medicina. Qualche cifra: nel 2009 erano previste dalle aziende sanitarie 4.480 assunzioni di infermieri, ma non c’erano abbastanza laureati in infermeria, ne mancavano 2.670, pari al 59,6% degli addetti di cui c’era richiesta. Stessa situazione per la fisioterapia, che registra una difficoltà di reperimento del 43,7%; percentuale che passa al 37,7% per i progettisti metalmeccanici; al 37,7% per i progettisti di elettronica. Scarseggiano anche i farmacisti, la cui difficoltà di reperimento è del 34,6%».

«Sì, le difficoltà ci sono - afferma Vincenzo Milanesi, rettore di Padova e coordinatore di Aquis, l’associazione degli atenei di qualità - Per aiutare i giovani occorre migliorare la comunicazione tra il mondo del lavoro e quello della formazione. Certo, nel settore scientifico e tecnologico abbiamo bisogno di più laureati, non possiamo continuare a incrementare lauree “deboli” che non danno occupazione, né gli atenei possono reclutare matricole con il criterio di fare cassa o colmare buchi di bilancio, senza preoccuparsi degli esiti. Dobbiamo, invece, ridurre la dispersione, che oggi è feroce, e evitare di sfornare laureati costretti poi a lavori distanti da quelli per cui si sono preparati».

Ma chi ha una laurea in tasca e non trova lavoro, come può tutelarsi? Secondo la Confindustria i giovani dovrebbero abbandonare ogni forma di scetticismo nei confronti dei contratti a progetto: «Arricchiscono il curriculum, è accertato che chi ha già alle spalle un lavoro “flessibile” - sottolinea ancora Gentili - più facilmente trova lavoro stabile».

Però l’Italia è afflitta anche da un altro problema: la denatalità è un male cronico e da oltre un decennio abbiamo pochi giovani, con conseguenze negative nella società e nel lavoro. Tutti gli analisti dicono che il “nostro capitale umano è scarso”: la popolazione giovanile è dimezzata, nell’85 avevamo 9 milioni di giovani, ora ne abbiamo 6, significa che in vent’anni abbiamo perduto 3 milioni di giovani. E dei giovani che abbiamo molti, troppi, sono usciti dal circuito della formazione. Come dicono gli spagnoli, allarmati dalla generazione del “ni” e “ni”, quella generazione che non studia e non lavora, c’è chi si perde per strada.

Gli anni Settanta hanno distrutto la scuola e tocca a noi ricostruirla



Degrado, declino, disastro, rovina, decadimento: in questi termini ormai da qualche anno siamo abituati a descrivere la situazione in cui versa il sistema scolastico in Italia e non solo. Grazie ad un contributo che ci arriva oggi dalla Francia, alla lista si aggiunge “disfatta”, ennesima declinazione della stanca retorica della crisi? Non proprio. La disfatta della scuola (pp.296, €18), uscito di recente per Marietti editore, traccia un quadro allarmante dello stato attuale del sistema educativo francese, offrendoci parallelamente un profondo spunto di riflessione, utile ad illuminare situazioni ed esperienze nostrane riguardanti il panorama della scuola italiana ed europea.

Curato da Laurent Lafforgue, insigne matematico con il pallino dell’educazione, e da Liliane Lurçat, esperta riconosciuta dell’istruzione primaria, il testo raccoglie i contributi di un gruppo di insegnanti che convergono nel presentare una diagnosi precisa e circostanziata dei mali della scuola francese, analizzandone rispettivamente origini e cause. Dall’educazione linguistica alla matematica, dalla musica alla letteratura, dalla tecnologia alle scienze della natura, il bilancio emergente dai vari saggi - teorici e generali, alcuni, descrittivi e particolari, altri -, che compongono il volume fa risaltare una formazione complessivamente piena di lacune nelle conoscenze di base, di solito risalenti alla scuola primaria, senza una solida padronanza della lingua materna, delle regole della logica e del ragionamento e di tutte quelle abitudini indispensabili per lo studio.

All’origine del disastro educativo vi sono ragioni storiche e culturali, di tipo pedagogico e istituzionale improntate ai presupposti dell’educazione moderna, profondamente utopica, affermatasi all’insegna della negazione del reale e della rottura con il passato. Gli autori, impegnati nei diversi gradi della formazione, puntano il dito contro le sciagurate politiche di riforma, condotte a partire dagli anni ‘70 in Francia e in Europa, che, colpendo il fondamento stesso dell’insegnamento con il pretesto di rinnovarlo per democratizzarlo, hanno indebolito la scuola del sapere fino a trasformarne la natura e a ridefinirne lo scopo. L’introduzione del pensiero scientista nella pratica pedagogica e delle cosiddette scienze dell’educazione - che una volta proclamatesi scientifiche hanno potuto screditare il metodo di insegnamento tradizionali denunciandoli come artigianali - e la demolizione dei programmi precedenti sostituiti con un approccio metodologico noncurante dei contenuti e ispirato alle dottrine più intransigenti della pedagogia dell’autoapprendimento hanno totalmente capovolto il sistema di istruzione, riducendo alunni e insegnanti a topi da laboratorio e facendo dell’uomo un corpo soggetto a pure leggi, psicologiche e sociologiche, privato della sua stessa libertà. In più, i processi di formazione degli insegnanti hanno via via privilegiato le materie psico-pedagogiche a scapito di quelle disciplinari.

Si è così imposto il costruttivismo, un modello di educazione fondato sull’allievo, sui suoi tempi, sulla libera espressione dei suoi desideri, sull’assenza di disciplina e sul rifiuto dell’autorità, in primis quella del maestro e dunque di una tradizione riconosciuta e canonizzata. Ma un mondo senza maestri, così come un mondo senza padri, è una massa indifferenziata di individui smarriti, schiavi dell’ignoranza e della mediocrità. Un mondo in cui non c’è più posto per le conoscenze oggettive, ma solamente per l’espressione delle opinioni e delle sensazioni. Proibendo qualsiasi insegnamento esplicito, classificato come dogmatico, lo si è sostituito con una pratica che pretende di fare affidamento esclusivamente sull’autonomia, la sperimentazione e la scoperta personale. Ma, afferma uno degli autori, “è come se, per aver voluto rendere gli alunni autonomi troppo presto, si fosse impedito loro di esserlo per sempre”. Questi nuovi metodi di insegnamento si sono imposti, senza tuttavia produrre i risultati sperati. Al contrario: non si è passati dall’autoritarismo all’assenza di autoritarismo, ma ad una nuova forma di autoritarismo.

E qui basta citare alcuni esempi tratti dalla cronaca, nostrana e d’oltralpe: il bullismo, le violenze e gli atti di inciviltà - riportati anche in una testimonianza all’interno del volume - che avvengono tra le mura della scuola. Come in “Entre les murs”, un film controverso, uscito in Italia nel 2008 col titolo “La classe”, che fotografa una scuola della periferia parigina, in cui il protagonista, alle prese con un microcosmo multirazziale fatto di adolescenti ribelli e indomabili, non è un eroe o un illuminato, ma semplicemente un insegnante che si assume la responsabilità di educare, accetta la sfida, se ne prende i rischi, lasciandosi provocare dai ragazzi e guidandoli, così, alla scoperta di se stessi. Come anche il film testimonia, l’assenza di disciplina e di autorità non risolve la questione della violenza e del desiderio di domino, ma la sposta. Un insegnamento che pretende di conferire competenze senza la mediazione delle conoscenze e senza passare attraverso un apprendimento strutturato, ordinato e progressivo di queste ultime, intende programmare gli alunni, non istruirli, e agire direttamente sulla loro personalità per trasformarla, considerandoli dei meccanismi di cui si vuole regolare il funzionamento.

Non a caso, Lafforgue nell’introduzione che apre il volume, paragona, con una provocatoria analogia, l’attuale stato di degrado della scuola francese alla disfatta subita nel 1940 dalle truppe francesi di fronte all’avanzata nazista. Oggi come allora, la debacle è da imputare ad “un indebolimento del carattere e ad una decadenza del pensiero”, spacciati per innovazione e ammantati di scientificità, di cui sono responsabili proprio coloro - esperti governativi, accademici e intellettuali - che avrebbero dovuto farsi custodi della conservazione e della trasmissione della cultura e del sapere. E come nel 1940, il rischio è l’instaurazione della dittatura, un’occupazione, in questo caso, non militare ma culturale e delle coscienze che, nel volume, è adombrata come il pericolo più temibile per il futuro dei giovani. Tutti gli autori si dichiarano a favore di una scuola dell’istruzione, del sapere, dello spirito critico, del gusto intellettuale, dell’amore alla vita e della passione per la conoscenza. Poiché l’educazione è in primo luogo un fatto umano, l’esperienza di persone che interagiscono in una relazione, un impegno umanizzatore nel quale ciascuno è protagonista di un progetto di vita che ha da realizzarsi e, come tale, non può essere ridotta né ad addestramento, facendo privilegiare la logica della tecnica, né ad una logica che renda l’individuo totalmente autosufficiente.

Oggi, invece, in Occidente lo scopo dell’educazione è diventato puramente utilitaristico, equivale ad acquisire delle competenze tecniche ai fini di inserirsi nel mercato del lavoro e avere i mezzi per soddisfare la propria individualità. Non si insegna più per destare e vivificare la coscienza dell’uomo e aprirlo al senso della vita. Ma c’è dell’altro. Identificare le ragioni della crisi profonda che attraversa la scuola oggi, significa anche rendersi conto che la sua origine è di natura filosofica e antropologica in quanto riguarda la concezione dell’uomo e dell’esistenza. Quando la vita non ha senso, come può averne uno l’insegnamento? Per cui non è tanto mancanza di progetto, quanto mancanza di visione e di coscienza. Allora anche la scuola parla il linguaggio del dubbio, del pessimismo, del lamento e della ribellione che nutre il male di vivere dell’uomo di oggi. Per imparare e per insegnare bisogna amare la vita. È prendendo consapevolezza di questo che l’esistenza diventa appassionante e l’uomo scopre in essa un percorso graduale di costruzione di sé in cui riscoprire anche il valore e il bisogno dell’autorità, incarnata da una figura autorevole capace di trasmettere con certezza e fiducia ciò che ha ricevuto.

Questo è il maestro, una guida che insegni a guardare il mondo, a leggerlo e ad attraversarlo, rendendo possibile il pieno sviluppo della persona. Pertanto La disfatta della scuola, malgrado il titolo e il carattere di denuncia, non cede né ad una prospettiva disfattista né alla retorica della crisi, ma intende essere una proposta coraggiosa e appassionata, o meglio la ricerca di un’alternativa concreta, affinché la presa di coscienza collettiva contribuisca al superamento dello stato attuale in cui si dibatte il sistema educativo francese, italiano ed europeo in genere. Così facendo, Lafforgue e gli altri, senza suggerire un nostalgico ritorno al passato, tracciano, anche per noi, delle piste di riflessione e di azione per una rifondazione e una ricostruzione della scuola, restituendole la funzione che le è propria all’interno della società. Non soltanto luogo di socializzazione e di maturazione psicologica, ma soprattutto ambito di conoscenza della realtà che abbia a cuore la trasmissione della vita e quindi della cultura, intesa come una tradizione riconosciuta e canonizzata, ai fini di conferire a tutti gli studenti, adulti del futuro, gli strumenti della libertà di pensare, di creare e di agire.

La scuola oggi va male, ma la crisi può trasformarsi in una sfida e un’opportunità che ci è data per agire con risolutezza e con fiducia. Un insegnante deve impegnarsi anzitutto arrischiando se stesso e, così facendo, essere veicolo della conoscenza, del profondo desiderio di imparare, di sapere e di capire. Educare significa allargare l’orizzonte, apprendere a dirigere lo sguardo, avere senso critico, acquisire criteri e imparare a interpretare. Istruire, educare, insegnare: queste le tre parole chiave per un’istruzione intesa in senso pieno, completata dall’educazione e compiuta nell’insegnamento, che ci introduce al cuore della trasmissione, fondamento della vita.

Caos Ru486, ora spunta il federalismo etico


Lo scontro sull'aborto. Dopo le iniziative dei governatori leghisti Cota e Zaia, contrari alla pillola per l’interruzione di gravidanza, l’Italia può trasformarsi in uno Stato laico a macchia di leopardo. Le Regioni rosse pronte allo "strappo" anche sulle nozze gay

Roma È il federalismo, bellezza. Le prove generali si giocano sui temi etici, dopo che i neo governatori leghisti Cota e Zaia si sono pronunciati sulla pillola abortiva Ru486 al grido di «Mai nei nostri ospedali». Al di là del putiferio politico e delle frenate di Bossi, del ministro della Salute Ferruccio Fazio e di molti esponenti della stessa maggioranza, è innegabile che c’è già una legge che fissa dei paletti su come e quando poter interrompere una gravidanza.
Una legge, la 194, che vale per tutti, da Crotone ad Aosta, da Siracusa a Trieste, ma è vero anche che ogni Regione può avere differenti approcci nei confronti del farmaco. Così, sostenendo che «non mi piace che questa pillola si trasformi in qualcosa di simile a un’aspirina», Zaia ha fatto presente che la sua Regione potrebbe bloccare un farmaco e decidere come eventualmente distribuirlo. Scandalo? No. Perché anche il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella ha rammentato che «Consigli regionali e comunali di sinistra hanno diffuso la Ru486 quando non era autorizzata».
Cosa potrebbe accadere? Potremmo avere una sorta di mappa dell’aborto facile nelle Regioni rosse: Toscana, Umbria, Emilia Romagna, Liguria, Basilicata e Puglia; meno lasche tutte le altre, a guida pidiellina. Potremmo così diventare uno Stato laico a macchia di leopardo, uno stivale più simile ai federalisti Stati Uniti che non alla centralissima Francia. Proprio i temi sensibili potrebbero portarci nell’anticamera di un federalismo etico che dall’altra parte dell’Atlantico funziona da parecchi anni: perché se l’Oregon e Washington sono più aperti a concedere il suicidio assistito per i malati terminali, in altri Stati quali lo Utah o il Nebraska resta un tabù. E ancora: il governatore della California Arnold Schwarzenegger ha mostrato i muscoli contro la sentenza della Corte Suprema che ha aperto ai matrimoni gay mentre l’Arkansas, con un referendum, ha approvato a larga maggioranza il divieto di adottare figli alle coppie non sposate. Matrimoni gay messi al bando in altri sette Stati, ma consentiti in altri. In tema di aborto, appena quattro anni fa i cittadini del South Dakota hanno per poco bocciato una legge che vietava l’interruzione di gravidanza anche in caso di stupro o di incesto. Sull’altro fronte, gli elettori di California e Oregon hanno respinto la richiesta di rendere obbligatoria la notifica ai genitori degli aborti praticati su ragazze minorenni. È il federalismo dei diritti civili, sorta di giacca su misura dove i singoli Stati lavorano come sarti per fare un bavero più o meno ampio o maniche più o meno larghe.
Nei Paesi federali funziona così. Anche se in Svizzera, tuttavia, la tendenza è diversa: Berna ha sempre più peso e meno spazio è lasciato all’autonomia cantonale. In materia di aborto negli anni Settanta i Cantoni più «liberali» erano soltanto sei mentre nel 2002 solamente in tre era ancora difficile abortire. Poi è entrata in vigore la nuova legislazione federale, valida per tutti: entro le prime 12 settimane la donna ha diritto di decidere se interrompere o meno la gravidanza. E questo vale a Zurigo come nel Canton Zugo. Ogni tanto associazioni antiabortiste alzano la voce, ma sempre a livello nazionale. L’ultima volta in gennaio, quando l’organizzazione «Mamma» ha provato a chiedere di stralciare l’aborto e l’embrioriduzione dal catalogo delle prestazioni dell’assicurazione malattia di base.

di Francesco Cramer Il Giornale domenica 04 aprile 2010

Le mosse del Pdl, Berlusconi apre all’Udc e i finiani si lanciano sul dialogo al centro


Lo scopo è tentare di accreditarsi come interlocutori privilegiati. Bocchino: "È questo il momento giusto per ridiscutere l’alleanza". Generazione Italia: "Casini prenda atto che i suoi elettori stanno con il centrodestra".

Roma Pier Ferdinando Casini non può più «esimersi dal fare una scelta», altrimenti «rischia di apparire come un tennista che, anziché giocare da una parte o dall’altra del campo, pretende di farlo seduto sulla rete». Italo Bocchino, per rimanere in gergo sportivo, tira un dritto lungolinea e avanza, lasciandosi alle spalle il fondocampo. Insomma, il finiano doc gioca d’anticipo e lancia un appello chiaro all’ex alleato centrista: «Il momento per ridiscutere l’alleanza è questo, in concomitanza con l’avvio delle riforme istituzionali, dove al pari e in maniera armonica con Berlusconi, Fini e Bossi, anche Casini può costruire l’assetto della nuova Italia». Così, nel solco dei valori già condivisi nel Ppe, il vicepresidente dei deputati Pdl invita l’Udc a riflettere innanzitutto sull’esito delle recenti Regionali, «dal quale emerge che i suoi elettori preferiscono stare con il centrodestra», visto che «è stata ininfluente ovunque si è schierata con la sinistra e influente nel Lazio e in Campania, dov’era nel suo alveo naturale».
Analisi politica su cui si potrebbe discutere a lungo. Ma ciò che conta è che adesso inizia davvero una nuova fase e la celerità con cui Bocchino guarda al futuro - corredando però la sua analisi sul sito Internet di Generazione Italia con una foto a tre (Fini, Berlusconi e Casini sorridenti) di cidiellina memoria - può voler dire parecchie cose. Tra le ipotesi: gli ex An, alla luce della vittoria politica incassata dal Cavaliere, in tandem con il Senatùr, rilanciano l’attivismo sul versante riforme per non rimanere isolati e accreditarsi come i promotori di un’intesa al centro, magari ventilata, ma non ancora esplicitata in maniera diretta dal premier.
L’obiettivo, dunque, non obbligatoriamente malizioso, sarebbe quello di accreditare il presidente della Camera come l’interlocutore privilegiato nei confronti del suo predecessore a Montecitorio. Tanto che il vicecapogruppo aggiunge: «Casini, con la sua partecipazione alla partita riformatrice nell’alveo del centrodestra, può garantire alcune questioni che lui e Fini hanno più volte posto, tra le quali il dialogo con le opposizioni, l’ascolto attento delle sensibilità del Quirinale e i giusti contrappesi alle spinte di cui è portatrice la Lega». Lo schema sembra essere questo: Silvio pensi ad Umberto che a Pier Ferdinando ci pensa Gianfranco.
Si vedrà. Nel frattempo, la reazione centrista è attendista. Via libera a discutere, in linea generale, come si evince dalle parole di Casini: «L’opposizione non può estraniarsi e deve accettare la sfida delle riforme: sulla giustizia, sul presidenzialismo, che può essere di diverso tipo, sul superamento del bicameralismo e sulla riduzione del numero dei parlamentari». Su tempi e priorità (giustizia o istituzioni?), l’idillio potrebbe però subito svanire. E da qui a sposare l’idea che l’attuale bipolarismo sia l’assetto giusto per il Paese, ce ne passa. A fissare il sostanziale paletto è di nuovo Rocco Buttiglione, che poi si chiede: «Ma il Pdl è pronto a sposare i valori dell’Udc, quelli della moderazione e del rispetto istituzionale?». E ancora: «Il Pdl è davvero pronto a uscire da una situazione che sembra oggettivamente di subordinazione nei confronti della Lega? Quando loro avranno risposto a queste domande, forse noi risponderemo alle loro...». Nell’attesa, Bocchino replica subito al presidente Udc: «Non c’è un’esigenza di sposare più i valori degli uni o degli altri». E «quanto all’esigenza di un Pdl non schiacciato sulla locomotiva della maggioranza, è fortemente sentita all’interno del partito, in particolare dall’area vicina a Fini».

di Vincenzo La Manna Il Giornale domenica 04 aprile 2010

sabato 3 aprile 2010

Vito: Governo determinato su completamento Salerno-Reggio Calabria


“Sin dal dicembre 2001, data di avvio del Piano delle Infrastrutture Strategiche previsto dalla Legge Obiettivo, nata da una precisa volontà del Governo Berlusconi, l’asse autostradale Salerno – Reggio Calabria è stato uno dei progetti chiave della rete di infrastrutture del Paese. Ciò è ampiamente testimoniato e cito due elementi: le decisioni assunte dal Ministero delle Infrastrutture, di intesa con l’ANAS, sulla riorganizzazione dei lotti funzionali del tracciato, per i quali si è passati da oltre 70 micro lotti a soli sei macro lotti. In secondo luogo, le numerose delibere del CIPE che, sempre in questi anni, hanno approvato i singoli progetti ed hanno garantito adeguate risorse finanziarie.” Così il ministro per i Rapporti con il Parlamento, on Elio Vito, in risposta ad un’interrogazione in Question time alla Camera dell’on. Tino Iannuzzi (Pd). “Ricordo che il progetto generale di ammodernamento dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria comprende 58 interventi, inclusi i nuovi svincoli richiesti dagli enti territoriali. Di questi interventi 30, per un’estensione complessiva di circa 193 km, risultano allo stato ultimati; 18, per un’estensione complessiva di circa 180 km, sono in esecuzione e altri 10, per un’estensione complessiva di circa 70 km, risultano in fase di avanzata progettazione. Da ultimo, relativamente all’aspetto finanziario, l’intera opera di ammodernamento dell’asse autostradale della A3 ha un costo di 10,2 miliardi di Euro. Di questi 10,2 miliardi la copertura finanziaria ha già raggiunto la soglia di 7,1 miliardi di Euro. Secondo quanto rappresentato dal Ministero delle Infrastrutture, i 3 miliardi restanti sono relativi ad interventi il cui stato progettuale si trova ancora in una fase preliminare, tale da non consentire una adeguata previsione. Del volano globale, quindi, di 10,2 miliardi di Euro, le opere già completate sono pari a 960 milioni di Euro, 5,7 miliardi di opere sono in corso e 3,4 miliardi sono relativi a opere in corso di progettazione. Il Governo - ha concluso Vito - conferma di attribuire all’ammodernamento della Salerno – Reggio Calabria rilievo essenziale per lo sviluppo del Mezzogiorno e dell’intero Paese e proseguirà con determinazione nelle ricordate attività finalizzate ad una celere conclusione dell’opera.”

Tra Berlusconi e Fini la pace passa per il presidenzialismo


Nella «Yalta del centrodestra» il Cavaliere vuole per il cofondatore la «delega» sulla forma di governo

Dopo il successo alle Regionali si prepara la «Yalta del centrodestra». Certo, i leader di Pdl e Lega non avranno da spartirsi il mondo - come i vincitori della Seconda Guerra - ma se davvero mirano a «cambiare l’Italia» in mille giorni, devono trovare rapidamente un compromesso sulle riforme, spartendosi le aree di influenza.


Così il Cavaliere si prepara all’incontro con Fini: perché se è vero che il berlusconismo si fonda sulla «rivoluzione » del fisco e della giustizia, e se Bossi punta alla realizzazione del federalismo, resta da capire cosa intende fare l’altro «cofondatore» del Pdl con il presidenzialismo. È la domanda che Berlusconi porrà all’inquilino di Montecitorio, siccome quel sistema è sempre stato un obiettivo della destra, di cui Fini è il naturale azionista di riferimento.


Serve una «Yalta» al premier, è il metodo che ha deciso di adottare per realizzare il suo progetto e soddisfare le aspettative suscitate nel Paese. Il voto lo ha rafforzato, ma la sponda di Fini è necessaria, perciò deve capire se anche l’ex leader di An ha maturato la convinzione che una fase si è chiusa. Sciolto il nodo, chiederà al presidente della Camera di farsi «parte attiva» della stagione riformatrice, invitandolo — se crede— ad innalzare la bandiera del presidenzialismo.
Secondo il Cavaliere, Fini può farlo senza che tutto ciò confligga con il suo ruolo istituzionale e tanto meno con le sue idee. Anzi, proprio la sua veste attuale e il suo retroterra culturale garantirebbero al presidente della Camera di ritagliarsi uno spazio politico di prima grandezza, e offrirebbero maggiori probabilità di successo nella difficile sfida.


Ecco perché Berlusconi lo vuole «parte attiva», «e Gianfranco — dice Gasparri — dovrà decidere se marcare un territorio che storicamente è della destra. Sono convinto che lo farà. Anche se sorprese un po’ tutti nelle scorse settimane, quando parve prendere le distanze da Berlusconi che aveva rilanciato il tema. Bisogna capire se si trattò di prudenza istituzionale o di freddezza politica». È quanto vuole capire il Cavaliere, che ha messo da parte l’irritazione di quei giorni, ricordata al vertice del Pdl di mercoledì: «Rimasi colpito. Almeno su questo punto non pensavo si distinguesse. Ora spero che condivida il progetto e si impegni in prima persona». Si è mostrato sincero il premier, che certo non cela la propria diversità quasi antropologica da Fini. Ma il suo intento è disinnescare ogni mina di qui in avanti, perciò si propone con spirito ecumenico: «Anche perché ci sarebbe gloria per tutti».


Nella logica di una «Yalta di centrodestra », dopo il colloquio tra i «cofondatori » è previsto l’avvio della fase successiva. Tra fine aprile e inizio maggio saranno i gruppi parlamentari di maggioranza a presentare il progetto di legge di riforma costituzionale, con annessa opzione presidenzialista. Saranno «testi aperti», spiega Cicchitto, dato che l’intento è di aprire il gioco all’opposizione: «Ma ovviamente si andrà oltre la bozza Violante—precisa il capogruppo del Pdl — nel quadro di un sistema bilanciato che contempla anche il federalismo».


Il Cavaliere è pronto. E secondo il «finiano » Bocchino «lo è anche il presidente della Camera. Lui vuole il presidenzialismo, l’otto aprile ne parlerà al convegno organizzato da FareFuturo sul sistema francese». Proprio il modello su cui sta lavorando il ministro leghista Calderoli. Insomma, l’intesa sembrerebbe— sembrerebbe—possibile, se è vero che Bocchino aggiunge: «Berlusconi dovrà far poggiare la trave del nuovo ordinamento costituzionale sui due pilastri cari alla Lega e alla destra». Il confronto con l’opposizione avverrà sul disegno di legge messo in cantiere, e che sarebbe frutto di un’operazione di ingegneria legislativa: il Pdl ha infatti recuperato dai lavori della Bicamerale guidata da D’Alema il testo su presidenzialismo e federalismo, unendolo agli articoli sulla riduzione del numero dei parlamentari e sul superamento del bicameralismo inseriti nella «bozza Violante». «Sono progetti che il centrosinistra ha già votato », dice Bocchino: «Se cambiasse posizione, allora saremmo legittimati ad andare avanti da soli».


Ma prima di muoversi Berlusconi attende che Fini garantisca di farsi «parte attiva». «Questione non irrilevante », a detta di Quagliariello: «Senza l’appoggio sostanziale del presidente della Camera, il progetto si arenerebbe ». Con il suo appoggio, però, muterebbe il rapporto del Pd con Fini. Chissà se è anche questo l’intento del premier. Ora però si tratta di capire quale sarà — se ci sarà — il compromesso tra i «cofondatori», perché più volte l’ex leader di An ha detto di essere «un convinto presidenzialista. Ma presidenzialismo non significa "un uomo solo al comando"...». Serve una «Yalta» a Berlusconi, che è convinto di arrivare allo stesso obiettivo comunque: per legge o per via elettiva. In fondo, con l’attuale Costituzione, già oggi il capo dello Stato assegna l’incarico di presidente del Consiglio, nomina i ministri, scioglie le Camere, sceglie parte dei membri della Corte Costituzionale, è capo delle Forze Armate, presiede il Csm, ne stabilisce l’ordine del giorno...

Di Francesco Verderami Il corriere della sera Sabato 3 aprile 2010

giovedì 1 aprile 2010

Berlusconi su Facebook ora riforme

Il premier Silvio Berlusconi sceglie Facebook per ringraziare i lettori del Giornale e gli elettori dopo il voto amministrativo. Ecco il suo intervento online



Pillola abortiva, Lega Nord contro. Zaia e Cota decisi: "Bloccheremo l'utilizzo nelle nostre regioni"


Il neo governatore del Veneto: "Studieremo un modo per non farla arrivare negli ospedali". La decisione sposata dal collega del Piemonte: "Farò di tutto per contrastarne l'impiego". Mons. Fisichella plaude: "Sono atti concreti che parlano da sé''. Fazio: "Un tavolo dopo Pasqua". Gasparri contro l'Aifa: "Appare sempre più evidente la inadeguatezza del direttore Rasi". Bersani: "Sono presidenti e non imperatori". Bianco (Fnomceo): "La priorità è la lotta alla clandestinità delle procedure".

Ha il sapore della polemica il primo passo formale della Lega alla guida delle regioni. Luca Zaia e Roberto Cota, neo eletti governatori di Veneto e Piemonte, hanno annunciato la decisa intenzione di bloccare l'uso della pillola abortiva Ru486, a giorni disponibile negli ospedali italiani. Immediata la replica del Partito democratico, per bocca del segretario Pier Luigi Bersani: "Faremo comprendere a questi nuovi presidenti che non gli e' stata messa in testa un corona da imperatore".

Ad avviare le danze e' stato Zaia: "Studieremo tutti modi per non far arrivare la pillola abortiva Ru486 negli ospedali veneti. Siamo nettamente contrari a questo strumento, banalizza una procedura cosi' delicata come l'aborto, lascia sole le donne e deresponsabilizza i piu' giovani". Una posizione poi sposata da Cota, che gia' ieri aveva chiarito il suo no alla pillola abortiva. "Sulla pillola Ru486 la mia posizione e' sempre stata chiara: essendo a favore della vita faro' di tutto per contrastarne l'impiego", ha detto il governatore del Piemonte.

"E' ovvio che rispettero' la legge, non posso fare diversamente", ha aggiunto, ma "chiedo ai direttori generali di bloccare l'impiego della Ru486 attendendo la mia entrata in carica, perche' ritengo necessario attendere l'emanazione di linee guida precise da parte del ministero della Salute. A quanti parlano a vanvera vorrei far notare che, a prescindere dalle valutazioni di principio, seppur dal mio punto di vista molto importanti, sotto il profilo medico si tratta di una pratica potenzialmente molto pericolosa per la donna".

Anche Renata Polverini, la neo governatrice del Lazio, ha chiarito la sua posizione: "C'e' una legge, la 194, che va rispettata. Io ovviamente sono a favore della vita e faro' tutto quello che potro' per difenderla. Detto questo la pillola abortiva Ru486 avra' lo stesso percorso dell'aborto chirurgico -ha spiegato-. Anche se chimico, si tratta comunque di un aborto e quindi anche l'utilizzo della pillola abortiva dovra' avvenire in ospedale. Bisogna salvaguardare assolutamente la salute della donna come la legge 194 prevede".

E mentre il ministro della Salute Ferruccio Fazio ha anticipato che sara' istituito "dopo Pasqua il tavolo per le linee guida e il monitoraggio della Ru486", la presa di posizione dei governatori ha dato il via ad una accesa polemica: "Andra' ricordato ai presidenti leghisti che Piemonte e Veneto restano in Italia e in Europa. Dell'autorizzazione e dell'uso di un farmaco non decide un presidente di regione, tanto meno egli decide della liberta' terapeutica, ne' puo sostituirsi al rapporto tra medico e paziente", ha detto Pier Luigi Bersani replicando a Cota e Zaia.

"A pochi giorni dalle elezioni siamo gia' a discutere di principi elementari e basilari e ad ascoltare affermazioni e intenzioni che possono aprire un solco profondissimo nell'opinione pubblica, cosa di cui non abbiamo certamente bisogno -ha aggiunto Bersani-. In ogni caso, faremo comprendere a questi nuovi presidenti che non gli e' stata messa in testa un corona da imperatore".

Esplicito e' stato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri: "Anche dal risultato delle regionali arrivano notizie negative per il partito della morte. La pillola abortiva Ru 486 non circolera' facilmente. E questa e' una buona notizia. L'obbligo del ricovero e' stato ribadito dal Senato e dal Consiglio superiore della sanita'. La banalizzazione dell'aborto e' stata sconfitta".

Gasparri ha aggiunto: "In questo contesto sorprende la fastidiosa insistenza del direttore dell'Aifa Rasi su questi temi. Travalica il suo ruolo tecnico e sembra piu' un piazzista di farmaci che un garante di regole. Il suo atteggiamento insospettisce. Ci vuole un po' di trasparenza anche all'Aifa. Ci occuperemo di questo problema, perche' allo stato ci sono troppe cose che non quadrano. Gli interessi sono forti. E non tutti appaiono terzi nei loro ruoli. Rasi potrebbe essere la persona sbagliata al posto sbagliato".

E sull'argomento e' intervenuto anche il Papa, spiegando che i cristiani non possono obbedire a leggi che vanno contro la verita' di Dio. "Anche oggi e' importante per i cristiani seguire il diritto, che e' il fondamento della pace. Anche oggi e' importante per i cristiani non accettare un'ingiustizia che viene elevata a diritto, per esempio, quando si tratta dell'uccisione di bambini innocenti non ancora nati", ha detto Benedetto XVI nel corso della messa del Crisma celebrata nella basilica di San Pietro insieme a cardinali, vescovi e presbiteri.